iv ed. biografilm festival
international celebration of lives

Bologna, 11 - 15 Giugno 2008

 

di Valentina VELLUCCI

Commento

Focus on Hunter Stockton Thompson

 

Attraverso Where the Buffalo Roam, Fear and loathing in Las Vegas e Gonzo: the life and work of Dr. Hunter S.Thompson, al Biografilm Festival 08 di Bologna si è cercato di ricostruire la Gonzo-vision dell’eccentrico giornalista del Rolling Stones , Hunter Thompson.

Le pellicole sono estremamente diverse fra loro, sia per il genere cui appartengono (le prime due sono ispirate a racconti di Hunter, la terza è un documentario), sia per il modo in cui presentano l’inventore del Gonzo.

Probabilmente sono così diverse fra loro proprio perché parlano e si basano sui pensieri del Dr. Hunter: la poliedricità di questo iconoclasta, emblema del giornalismo (non solo americano), non poteva che produrre immagine emblematiche eppure tanto diverse fra loro per tentare di ricostruire la sua visione post-moderna della realtà.

 

Where the Buffalo From è un film del 1980, basato su alcuni racconti biografici di Hunter, che narrano le avventure sconsiderate di Gonzo e del suo avvocato, Mr Lazlo. Il lungometraggio, diretto dall’allora debuttante Art Linson, è un prodotto tipicamente hollywoodiano che non riesce né a penetrare né quanto meno a scalfire l’immagine di Gonzo: riesce solo a perpetrarne il mito già esistente senza svelarlo o, quanto meno, tentare di spiegarlo. Il film, per quanto piacevole, era stato plasmato da un Linson ancora agli esordi (insomma, niente a che fare ancora coi più noti capolavori come The Untouchables o Black Dalia), che ha girato questo film quasi su commissione dell’industria cinematografica di Hollywood (come è stato precisato nel focus del Biografilm). Il film, che non andò molto bene nemmeno al suo esordio in America, ha gettato le basi per quello che è stato poi Fear and loathing in Las Vegas. L’interpretazione di Bill Murray nei panni dello squinternato, quanto geniale Thompson, rimane esilarante e a tratti brillante (si accende nel finale, quando ritrova il suo amico Lazlo). Sarà stata sicuramente d’aiuto a Johnny Deep per il suo Raoul Duke in Paura e delirio a Las Vegas di Terry Gilliam. Se pure l’interpretazione di Deep è molto concentrata sulla riflessività dell’immagine e della gestualità di Thompson, (non c’è alcun tentativo di ridicolizzare il giornalista, al contrario dei momenti quasi caricaturali di Murray), si possono trovare molti punti di comunanza e contrapposizione fra i due Gonzo. È probabile che le caratteristiche diametralmente opposte che Deep decide di fondere nel suo Duke abbiano come base la recitazione di Murrey, proprio per non entrare in competizione (o peggio, essere confuso) con una istituzione del cinema quale è Bill Murray.

 

Se ne primo film Thompson appare prigioniero del personaggio di Raoul Duke, in Paura e delirio a Las Vegas, Deep interpreta un Thompson che  a sua volta interpreta Duke. Una sorta di gioco di simulacri hitchockiani, (in Vertigo Kim Novack recita Judy che recita Madeleine), che trova la sua forma da una lato nella feticizzazione di Thompson e dall’altro nella sua impenetrabilità. Lo svuotamento del personaggio di Thompson, svuotamento necessario per renderlo feticcio commerciale infarcito di valori universali e riconoscibili, conosce la vera consacrazione con l’interpretazione di Deep sotto l’egida della “visionarietà” (l a visionarietà è uno dei due poli del filo rosso, conduttore del Biografilm 08) di Terry Gilliam. Uscito dalla sacralizzazione di storyteller maledetto, pop star devastatrice di stanze di hotel, lo scrittore che è in Thompson riprende ad avere la sua dignità di giornalista e scrittore nel momento in cui si accetta la sua bravura, il suo genio. Ciò che infatti manca nel film di Linson, che entra prepotentemente in scena con Terry Gilliam e che viene testimoniato nel documentario di Gibney, è il motivo per cui tutti vogliono Gonzo: Hunter Thompson è un giornalista unico. Geniale.

 

Se in Where Buffalo roam la bravura di Hunter è totalmente trascurata (e il direttore del Rolling Stone sembra un povero pazzo che ne rincorre uno ancora più instabile per il semplice gusto di mandare sull’orlo di una crisi di nervi l’intera redazione), in Gonzo: the life and work of Dr. Hunter S.Thompson, il genio di Thompson esplode. Hunter era un ottimo giornalista, che ha vissuto sempre al di sopra delle sue possibilità: eccentrico, lunatico, alterato dagli acidi. Oltre tutto questo, Hunter è il giornalista che tutti vorrebbero nella propria redazione, perché capace di fare il suo lavoro. Meglio degli altri. Gibney non trascura neanche una volta questo lato, restituendo a Thompson la dignità giornalistica e di storyteller che gli si doveva ormai da molto tempo. Se molti lo hanno trattato solo come una pop star, un Pete Doherty degli anni ‘60 e ‘70, il film di Gibney rende finalmente giustizia all’istrionica personalità dell’inventore del Gonzo journalism.

Non ci si stupisce dunque, che quest’anno il Biografilm Festival abbia tentato un viaggio attraverso Hunter Thompson, uno dei comunicatori più “post-moderni” dell’America anti-comunista della caccia alle streghe.

Realizzare un documentario su Gonzo non deve essere stata una scelta facile per Gibney: un personaggio come Hunter Thompson ha sicuramente avuto una vita che vale davvero la pena di raccontare, quindi può apparire un soggetto sui cui sembra facile realizzare un documentario di successo. D’altra parte può risultare però ovvio che un documentario su un personaggio di questa portata, può ridursi a un polpettone-feticcio che tutti vanno a vedere perché Hunter Thompson è stato uno dei protagonisti dell’ Acid Generation.

Gibney però, forte anche della sua esperienza di altre pellicole estremamente delicate (come quella sullo scandalo Enron), evita di universalizzare Thompson, di renderlo una sorta di pop star maledetta che ha tentato di cambiare il mondo. Lo racconta e lo lascia raccontare semplicemente, avviando una sorta di de-reizzazione della Gonzo-visionarietà, calcando la mano sul limite che Hunter ha dovuto affrontare: la delusione per un’epoca di promesse, un’epoca cui non si sentiva più di appartenere. Polverizzato dalla post-modernità con cui raccontava la sua sconfitta, l’aborto delle promesse dell’epoca che lo aveva generato, Gibney racconta il declino e il suicidio dell’uomo attaccato dai pipistrelli sulla strada per Las Vegas. Chi, come l’artista e amico Ralph Steadman, sapeva che Hunter lo avrebbe sicuramente fatto prima o poi. E che il suo è stato un gesto eroico. Chi invece, come la prima moglie, che vede nel suicidio di Hunter la sconfitta per un uomo, un giornalista che nell’era Bush avrebbe potuto davvero fare la differenza.

 

 

iv ed. biografilm festival
international celebration of lives

Bologna, 11 - 15 Giugno 2008