59.ma berlinale
Berlino, 05 - 15 Febbraio 2009
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Chéri
di Stephen Frears
Regno Unito/Germania 2009,
100'
In Concorso |
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di Valentina DI MICHELE
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Alla domanda
di un giornalista di un magazine femminile tedesco, che le chiede se il suo
ruolo nel nuovo film di Stephen Frears,
Chéri, non sia in realtà lo specchio di un problema reale -
invecchiare, e trovare copioni adatti, non solo ad Hollywood - Michelle
Pfeiffer è diplomatica:i ruoli saranno forse meno, ma molto, molto più
interessanti.
In Europa, almeno, il problema sembra in apparenza minore, anche se non di
secondario interesse: in un festival delle dimensioni della Berlinale, sono
già due i titoli che hanno affrontato il tema della maturità femminile, e in
particolare nella relazione con uomini (parecchio) più giovani.
In The Countess, banale
mainstream europeo di Julie Delpy, Erzebet Bathory si bagna con sangue
di vergini nella speranza di ottenere una (fittizia) rivincia sull’amante
che l’ha abbandonata.
Narratore di classe (da My beautiful
Laundrette ad Alta Fedeltà
fino al recente the queen) e
dalla sottile analisi psicologica, Frears adatta Colette per raccontare una
storia altrettanto amara, quella di una impossibilità sentimentale che va
ben oltre le rughe e la superficiale manifestazione del potere nella coppia.
La storia è di sé piuttosto triste. Lea (Michelle Pfeiffer, con il regista
britannico già in Le relazioni
pericolose) è una cortigiana prossima ai cinquant’anni, ancora bella,
ricca ed elegante. Tra le sue amiche, ex femmes de vie come lei, ce n’è una
- l’ottima Katy Bates - che, preoccupata dalla vita dissoluta del figlio
diciannovenne, Chéri, le affida la sua iniziazione sentimentale. E fin qui
tutto bene, intorno ci sono Parigi e la Belle Epoque e gli anni passano
senza troppe preoccupazioni, finché un giorno la premurosa mammina, decisa a
dare a Chéri una sistemazione decorosa per il futuro, combina il matrimonio
con la figlia di un’altra collega.
Lea, colpita nell’orgoglio e nei sentimenti, si fa da parte con dignità e
organizza anche una fuga, che porta il giovane ex amante, abituato ormai ad
una devozione materna mai ricevuta dal suo stesso sangue, alla frustrazione
e all’autodistruzione.
In un panorama emotivo così desolante, le mani di Frears e dello
sceneggiatore Christopher Hampton salvano il film dalla rischiosa caduta
melò - per intrecciare alla tragedia di fondo scambi leggerissimi e
deliziosi, sottolineati dalla briosa voice-over e dalla bella
performance delle interpreti femminili come contrappunto ironico alle
miserie della vita.
La matura Lea (ma questo si sapeva sin dall’inizio) è condannata a perdere
il suo amore. Il suo amore, per ragioni ben superiori alla perdita stessa
del sentimento, sarà condannato a morte.
Forse ha ragione Michelle Pfeiffer: i ruoli per le donne mature sono
sicuramente meno, ma sono molto, molto, molto più interessanti.
27/30
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Barbe Bleue
di Catherine Breillat
Francia 2009, 80'
Panorama |
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di
Celia LEVI
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Barbe Bleue è un film
riuscito che pure sembrando utilizzare una struttura narrativa convenzionale
- il racconto nel racconto- crea molti livelli diegetici. Paradossalmente
l'originalità del film risiede nel suo adeguarsi a questi luoghi comuni. Due
ragazzine, sorelle, sono sole in un castello; la più piccola legge a sua
sorella maggiore il famoso racconto di Perrault Barbe Bleue. Questa mise en
abime che è un topos sia letterario che cinematografico pone in modo
molto abile la questione dell'addattamento letteraria al cinema.
Si
potrebbe pensare che le immagini del racconto di Perrault nascano da questa
lettura che farebbe da cornice al film. In realtà questi due livelli
narrativi sono paralleli si rispecchiano e si rispondono. Nessuno dei due
precede l'altro. Catherine Breillat ci mostra un dispiegamento del discorso
che le permette di esplorare la psyché infantile e le sue nevrosi. Le due
giovani lettrici sono dei doppi delle due sorelle del racconto e sono anche
- e quello è il npunto il più interessante - la loro incarnazione. Ciò che
rimane al livello simbolico nel racconto di Perrault diventa correlativo
nella cornice. Il finale smentisce quest'interpretazione perché conclude
come una fiaba: la sorella maggiore spaventata dal racconto indietreggia e
cade in una trappola prima di potere sentirne la fine. Questa trappola è
simbolica, rappresenta la paura arcaica dell'incesto. Nel piano finale la
protagonista del racconto accarezza la testa decapitata di
Barbe Bleue come aveva fatto
con il padre morto all'inizio del film.
28/30
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the exploding girl
di Bradley Rust Gray
Stati Uniti 2009, 79'
Panorama |
 |
di Valentina DI MICHELE
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Il
titolo The Exploding Girl
viene da un B-side di un singolo dei Cure, In Between Days. "Mia
moglie," - la regista So Yong Kim,
NdR
- "aveva appena girato un film con questo titolo, e ho pensato alla mia
nuova opera come a una sorta di lato B della sua: le emozioni dei personaggi
sono invertite, ma i sentimenti sono gli stessi”.
Così Bradley Rust Gray, laureato in cinema sperimentale alla USC con Master
al British Film Institute di Londra, alla sua seconda Berlinale (dopo
Salt del 2003, premiato con
il Caligari Film Prize), racconta la genesi di
The Exploding Girl,
presentato nella sezione Panorama della 59ma edizione del festival tedesco.
Scritto a sei mani con la moglie e l’attrice Zoe Kazan, il film racconta una
storia minimalista e impalpabile, con poche azioni e molte emozioni, simile,
nella sua esplorazione di un certo mondo fragilmente giovane, al bellissimo
(e probabilmente più riuscito) All
the real girls di un altro favorito del Sundance, David Gordon Green.
La
ragazza che “esplode” (ma solo nel finale) è Ivy, ventenne ed epilettica,
che torna per le vacanze estive in una New York lontana dagli stereotipi
cinematografici, tanto da sembrare una qualunque città della grande
provincia americana. Il ragazzo di Ivy, Greg, ha il telefono sempre
staccato, e la ragazza si avvicina al suo migliore amico, Al, ospite a casa
sua.
A causa della malattia, la vita di Ivy è molto limitata, priva di alcol,
feste e amici, con una madre assente e molta solitudine. Al le sta accanto,
in una sottile ma evidente lacerazione esistenziale e sentimentale che
porterà Ivy a scoppiare in un pianto liberatorio, verso la possibilistica
apertura finale.
In
uno script denso di sensazioni, i veri protagonisti sono i rumori,
fortissimi e invadenti tanto da oscurare parte del dialogo nell’assunto
(molto godardiano) che non sempre nella vita le parole sono importanti. La
bella fotografia non basta però a salvare un progetto sin troppo ambizioso,
che indulge su uno sperimentalismo ambiguo e ammiccante, e cerca di dare un
senso a oggetti e frasi che, forse, spesso senso non hanno.
Nonostante però alcuni evidenti pecche, il cast di
The Exploding Girl (in
particolare Zoe Kazan e Mark Rendall) mostra una forza inusitata, e
quell’affiatamento ‘anti-industriali’ che certi film, piccoli, carini,
indipendenti, sanno creare.
>
l'intervista |
Baraka
di Ron Fricke
Stati Uniti 1992, 96'
Bigger than Life |
 |
di
Celia LEVI
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L’argomento
di Baraka potrebbe
riassumersi cosi: da un lato ci sarebbe la natura generosa nella quale
l’uomo riesce, attraverso e grazie a riti secolari, ad integrarsi;
dall’altro ci sarebbe l’uomo degenerato, schiavo dell’industria che si pensa
superiore alla natura e la distrugge. È una teoria molto diffusa che
meriterebbe un trattamento approfondito e una riflessione che non si
limitasse alla semplice constatazione o ad una binaria e altrettanto
riduttiva opposizione di immagini. Queste immagini accompagnate solo dalla
musica sono senza commenti. Vale a dire che sono “no comment”?
Il loro peso nascerebbe dalla loro concomitanza. Significherebbe forse che
siamo al di là del linguaggio? Il discorso è da cercare nell’accavallarsi
delle inquadrature. In effetti
Baraka è a forma di filastrocca, un elemento della inquadratura è
ripreso in quella successiva: per creare un effetto di contrasto o un
effetto di avvicinamento. Questo processo non è nuovo, era usato da
Eisenstein. Ma nei film di Eisenstein ci sono sempre due livelli di lettura
secondo Barthes, un livello orizzontale “obvie” (ovvio) e un livello
verticale “obtu” (nascosto). Il senso “obvie” si legge nel susseguirsi delle
inquadrature e delle sequenze mentre il senso “obtu” si legge tra gli
interstizi lasciati tra i fotogrammi, nelle “béances”. Nel film di Ron
Fricke non ci sono interstizi, c’è solo un senso “obvie” che si offre come
una donna facile. La bellezza formale delle inquadrature non cambia niente.
Il sistema di equivalenze e di antagonismi, oltre al fatto che è troppo
ovvio e che non lascia nessun posto alla riflessione, è moralmente
disturbante; sbocca sul confusionismo caratteristico a questa nostra epoca
che Fricke denuncia.
A una serie di piani di insieme in plongée, di prodigi della natura
che punteggiano il film, si oppongono le inquadrature finali in contro-plongée
degli stessi prodigi che corrispondono ad una visione giusta della natura,
una visione rispettosa e umile. Siamo piccoli di fronte al Cosmo. Questa
evidenza, che viene dopo più di duemila anni di filosofia, non sarebbe così
scioccante se nel frattempo non ci fosse una serie di sequenze scandalose
che creano un’avvicinarsi tra l’industria alimentare, la Shoa, i Khmer
Rossi, le dittature comuniste. Non si può non pensare all’articolo di
Rivette sul film di Pontecorvo: Kapò.
Rivette scrive che la carrellata ad avvicinarsi sul corpo di Emmanuelle Riva
sui reticolati elettrici di un campo di concentramento è immorale, e
Pontecorvo degno di disprezzo.
In Baraka, non c’è una
carrellata in avanti che riprende un personaggio che si è buttato sui
reticolati, ma c’è un montaggio che sembra dire senza distinzione che è
tutto equivalente. “Tutto è in tutto”, non al modo del “perché la Palestina?
Perché Sarajevo” di Godard, neanche nel modo controverso dell’universo
concentrazionario di Agamben. Non si tratta neanche di una ricerca
rousseauiana sull’origine del male. In effetti in questo film non c’è né
ricerca né dialettica. Come capire la storia senza dialettica?
Baraka è la prova che senza dialettica non c’è discorso.
20/30
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Ricky
di François Ozon
Francia/Italia 2009, 90'
In Concorso |
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di Maurizio BUQUICCHIO
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è piuttosto comune,
nell'ambiente cinefilo francese, e parigino in particolare, criticare il
lavoro di colleghi, e amici, con una sagacia che spesso sconfina nel
sarcasmo. è opinione
altrettanto diffusa, che il cinismo e lo snobismo culturale che ammorbano
l'industria cinematografica di questo paese favoriscano una certa prudenza,
o addirittura "immobilità" da parte dei nuovi autori, incapaci di smuovere
l'inevitabile risacca succeduta alla Grande Onda (Nouvelle Vague).
ça arrive. Ecco però,
che all'ebetismo figurale delle tante "pubblicità L'Oréal" dei giovani,
pretenziosi Bertrand Bonello o Christophe Honoré, fanno da controcanto le
provocazioni di un vero sperimentatore come Alain Guiraudie. Il presupposto
del cinema di quest'ultimo è sottrarsi a questo "gioco al massacro",
filmando il futile, il bizzarro, con la serietà e la "concretezza" di un
"classico". Il lavoro di Guiraudie non mira affatto al grottesco, ma semmai
all'assurdo, in senso beckettiano o pinteriano. Segnali di vita si possono
intravedere anche nel più moderato Desplechin: si tratta di una serie di
"tentativi", con l'umiltà di chi vorrebbe re-imparare a vedere, ricostruendo
stile e immaginario senza temere di sbagliare.
Le ragioni, e l'opportunità di questa lunga introduzione risultano chiare se
si tenta di instaurare un dialogo con
Ricky, l'oggetto misterioso
presentato da François Ozon alla 59a Berlinale. Per interrogare questo film,
ed evitare di fermarsi ad una stroncatura (più che legittima), è necessario
inserirlo nel contesto, nella peculiare congiuntura nella quale si trova il
cinema francese oggi. Cosa vuole dirci un regista il cui successo critico e
popolare è scemato, negli ultimi anni, con la storia di un bebè con le ali?
Quali sono i motivi di una simile operazione?
Lungi dal ripetere i fasti del migliore Jean-Claude Carrère e dal ricercare
effetti di "straniamento", Ozon sceglie un soggetto che in partenza suscita
alternativamente perplessità, ilarità, ma, è innegabile, una certa
curiosità.
Il tono, o ancor meglio il registro, è la chiave del film: tutti gli
elementi, dalla fotografia, alla mise en scene, alle performance degli
attori, sembrano guardare al realismo di un film minimalista europeo
contemporaneo (con cui Ozon non ha mai avuto nulla a che fare).
La Banlieu, la fabbrica, gli abusi, i servizi sociali: sembra di essere in
un film di Guédiguian (anche se non siamo a Marsiglia). Tuttavia, gli
sviluppi della storia virano verso il fantastico, o il fiabesco. Ozon
altalena per tutta la durata del film fra i toni sommessi ed evocativi del
simbolismo animale (e più che ai surrealisti pensiamo per esempio al cinema
giapponese, Imamura in primis) e la magniloquenza, con tanto di fanfare ed
espressioni di stupore sui volti delle comparse, di E.T. o di un qualunque
epigono spielberghiano. Non vi è la cattiveria, o l'acume di un film di
Ferreri (La Donna Scimmia),
come il presupposto narrativo, "lo scherzo della natura", potrebbe
suggerire.
Perchè?
Sembra che Ozon non se lo sia chiesto davvero, ma abbia seguito un istinto
irrefrenabile di stupire, forse scandalizzare. Il risultato è però, ancora
una volta, il sarcasmo. Ricky
è una pellicola che non può non diventare lo "zimbello" di un festival, e
suscitare un sarcasmo, che di solito, personalmente, cerchiamo di evitare il
più possibile. Qualcuno potrebbe obiettare che lo stesso film, girato da un
vecchio maestro, verrebbe semplicemente visto come una bizzarria, o da un
giovane autore asiatico, come un esperimento. Il punto è davvero questo, ed
è dunque logico che suoni arbitrario: si tratta di Ozon, si tratta di un
film francese contemporaneo, si tratta un lavoro che presumibilmente godrà
di una grossa distribuzione.
Ricky è un film che "si dà",
allo spettatore e al critico, apertamente, senza vergogna (o senza pudore).
L'interpretazione psicanalitica è a portata di mano, e altrettanto lo sono
le battute e la ridicolizzazione. Non si può fraintendere, ma solo
accettare, fatalisticamente, e questo è il suo gioco: non si tratta di un
film "umile" o "generoso", ma di uno scherzo, appunto, della natura.
26/30
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strella
di Panos H. Koutras
Grecia 2009, 113'
Panorama |
 |
di Valentina DI MICHELE
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“Strella
è una di quelle storie che si raccontano alle cene, una specie di leggenda
metropolitana. Sono queste le storie che catturano l’inconscio collettivo,
perché fanno riferimento a miti archetipici - spesso greci”.
Gli eroi di Strella, melò
“gay e tenero” dell’enfant terrible Panos H. Koutras, nato ad Atene
ma diplomato in cinema alla London Film School con Master alla Sorbona, sono
tutti archetipi, simboli individuali e collettivi del moderno e del passato,
di una identità ormai vecchia ed una nuova che arriva con grande fatica.
Il risultato, un mirabile incontro di umorismo, amarezza e tragedia, è un
racconto tra Almodovar, Sirk e Sofocle, uno straordinario piccolo film delle
gioie e dei dolori della vita - anche se la vita, qui, è piuttosto
peculiare.<br>
Yiorgos esce di prigione dopo quindici anni, ed i suoi primi passi nel mondo
libero sono incerti. Il suo confronto con il presente è difficile, e lo
trascina in una grave crisi esistenziale dalla quale viene salvato grazie
all’incontro con Strella, transessuale dalla eccezionale personalità.
Nonostante alcune lungaggini, Koutras riesce a tenere insieme con grande
grazia una storia difficile dal forte rischio-lacrime, e a toccare temi tabù
con delicatezza e poesia, grazie ad interpreti (per lo più
non-professionisti) straordinari ed una ironia che non teme confronti.
Applauditissimo dal pubblico, il film, quasi totalmente auto-finanziato, è
in attesa ora di un distributore greco.
28/30
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When You’re Strange
di Tom DiCillo
Stati Uniti 2009, 88'
Panorama |
 |
di
Celia LEVI
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Il regista
Tom DiCillio era alla Berlinale per presentare il suo film e ha chiesto
prima della proiezione quante persone fossero venute per vedere e sentire i
Doors: più di metà della sala (colma) ha alzato la mano. Questo preliminare
non ha lo scopo di criticare la tendenza del pubblico a considerare che il
contenuto di un documentario ne fa il suo principale interesse, ma di dire
che chi si aspettava un classico documentario, con interviste e faccende
personali, sarà uscito deluso della sala. I riferimenti alla vita privata
dei musicisti sono piuttosto scarsi.
Il film si apre su Jim Morrison che chiede un passaggio, sale in una
macchina vuota, accende la radio e sente l’annuncio della propria morte. Si
tratta di un estratto del film di Jim Morrison:
Highway. Ovviamente
l’annuncio della morte è stato aggiunto. Questo incipit strano, che non
sembra quello di un documentario ma piuttosto quello di un road movie, è
rappresentativo dello sforzo fatto da DiCillo per evitare il solito
documentario rock a scopo informativo.
Il film viene costruito come un film di gangster. La voce off che racconta,
più che commentare “l’irresistibile ascensione” del gruppo, si appoggia su
immagini fisse, foto e pezzi di footage. DiCillo interruppe ogni tanto il
racconto introducendovi pezzi del film Highway, una specie di viaggio post
mortem. Queste immagini creano un effetto di flashback interessante,
collocando Jim Morrison in una specie di eterno presente, DiCillo lo salva
della morte e ne fa giustamente il simbolo di un america ribelle e politica.
Jim Morrison, Ray Manzareg, John Densmore, e Robby Krieger vengono trattati
come dei personaggi di film, ogni concerto appare come la preparazione di un
hold-up. Questo trattamento ha il pregio di essere originale e di creare una
prossimità tra i musicisti e il pubblico. Non mancano riferimenti al
contesto storico, ma gli eventi storici non sembrano mai esteriori alla
narrazione.
È notevole anche il fatto che mentre la produzione cinematografica di oggi
si accanisce a girare biopics su musicisti o gangster, gli esempi non
mancano da Walk the line di
James Mangold al Mesrine del
francese Richet che ripercorre la vita del famoso evaso, DiCillo sceglie di
girare un documentario che somiglia a una fiction. Potremmo andare più in là
affermando che sembra una fiction che vorrebbe somigliare a un documentario.
La sfasatura tra la fissità di certe immagini e l’energia della musica
onnipresente usata in modo sistematico finisce col stancare e risulta troppo
ripetitiva. Il gioco strutturale di questo documentario tra la realtà
concreta della storia e il trattamento, quasi a forma di scherzo del
materiale visivo, si rivela un po’ forzato e superficiale. Rimane del film
solo un’atmosfera di libertà e di sovversione molto limitata e quasi
inconsistente.
22/30
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Il punto sul documentario
Berlinale 2009 |
 |
di Maurizio BUQUICCHIO
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Chi ha
familiarità con la Berlinale conosce bene la linea seguita dalla selezione
negli ultimi anni: quella di un'alternanza piuttosto equilibrata fra cinema
hollywoodiano e film, soprattutto girati da giovani autori, di "denuncia", a
carattere politico. è così che uno dei film di punta di questa edizione ha
potuto essere quella sintesi (malriuscita, purtroppo) di mainstream e
controcultura che è Milk di Gus Van Sant. la forma prediletta e più compiuta
con la quale però si esprime il disagio sociale, politico, e delle minoranze
di ogni sorta è sempre stata a Berlino il documentario. formato trasversale
che si interseca in tutte le sezioni del festival, è il documentario,
spesso, ad offrire le novità più interessanti, in una manifestazione nella
quale si hanno molte conferme (Chabrol, De Oliveira, Schrader) e,
onestamente, poche sorprese. Se di "democratizzazione" si può parlare,
riguardo alla diffusione del digitale, è vero che il supporto ha dato voce
alle rivendicazioni di una moltitudine di soggetti e gruppi che prima non
avrebbero avuto accesso all'attenzione del pubblico. Tuttavia, l'altra
faccia della medaglia è: quanti di questi documentari sono davvero
interessanti, e soprattutto quanti di questi sono considerabili Film?
è diventato piuttosto comune, prediligendo il contenuto, produrre delle
inchieste, dei "reportage", che somigliano molto più a lavori per il
piccolo, piuttosto che per il grande schermo.
è il caso di un film come
"Letters to the President" di Petr Lom. Privo di ironia, troppo grezzo o
spesso "troppo ben fatto", questo genere di "prodotto" ha i limiti di un
susseguirsi di "teste parlanti".
Passando dal politico al personale, si può entrare in sala con qualche
aspettativa su un documentario che ritrae la vita dei pazienti di un
ospedale psichiatrico in Giappone. Se ne può purtroppo uscire annoiati e
delusi se questo film è l'asettico e blando "Mental" di Soda Kazuhiro.
Lunghi piani sequenza, in un digitale verdastro e ospedaliero, sulla terapia
di un gruppo di utenti del servizio di igiene mentale a Tokyo: nessun punto
di vista, nessun contrappunto, nessun punto.
Al contrario, con poche aspettative ci si poteva imbattere in "Ne me libérez
pas, je m'en charge" di Fabienne Godet. Laddove si poteva temere un'idea
figlia della recente riscoperta dei gangster e degli "evasi" in Francia
(pensiamo a Mesrine e ai film su di lui degli ultimi mesi) ci si è trovati
davanti ad un ottimo documentario. La storia delle molteplici evasioni e
della vita Michel Vaujour fungono da correlativo per un'epoca passata, di
sovversivi, inquadrabile nella Francia tra il '68 e i '70 dei movimenti
anarchici. Il percorso di consapevolezza di un giovane rapinatore è la
parabola di una presa di coscienza prima di tutto politica.
Altrettanto interessante è "Von Wegen" di Uli Schüppel: un documentario sul
concerto degli Einsturzende Neubauten dell'89 nella Berlino socialista.
Tutto il film alterna materiale d'archivio dell'epoca, con le testimonianze
di berlinesi, da est e ovest, che ripercorrono oggi le strade che
attraversavano il muro. Ein guter Tag für die Deutschen o "un bel giorno per
i tedeschi", fu per la capitale divisa quello dello storico concerto, che
anticipò simbolicamente l'imminente trasformazione dello stesso anno. Le
scelte di... non sono affatto scontate, nè retoriche: le immagini della
performance sono ridotte al minimo, gli Einsturzende non vengono
intervistate per ricordare l'evento. Ciò che vediamo è semplicemente un
movimento, all'indietro, verso il luogo del concerto, e nella memoria, fra
le ombre, gli spettri, ma anche le luci della DDR.
Ma il film documentario, seppure sperimentale, più interessante alla
Berlinale è senz'altro "Zum Vergleich" di Harun Farocki. Il cineasta, già
attivo dai tardi anni '60, costruisce, è proprio il caso di dirlo, un film
fatto di mattoni. Solido, concreto, questo documentario si concentra sulle
diverse tecniche di fabbricazione dei mattoni, dall'Africa rurale alla
Germania super-industrializzata. Sarebbe troppo semplice parlare di
"Gemeinschaft und Gesellschaft": Farocki non si limita ad illustrare un
cambiamento epocale e sociale nelle pratiche di produzione. Piuttosto, con
sguardo costruttivista, esamina da vicino il lavoro, l'atto del costruire
("Bauen") come atto fondativo di ogni comunità stanziale. Mattone dopo
mattone, la comunità si consolida, si fortifica e costruisce la propria
identità collettiva. Nel processo industriale, viceversa, vediamo gli uomini
isolarsi sempre più, sgretolarsi, frammentarsi: il lavoro della società
capitalista non edifica, ci mostra chiaramente Farocki, ma isola, separa,
distrugge.
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mammoth
di Lukas Moodysson
Svezia/Germania/Danimarca
2009, 120'
Concorso |
 |
di Valentina DI MICHELE
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“Da piccolo
volevo fare il chirurgo. E continuo a sentirmi spesso un chirurgo quando
sono seduto con una sceneggiatura davanti. Se tolgo una battuta ne devo
mettere un’altra. È frustrante, ma anche affascinante”.
Nelle note di produzione di Mammoth,
ultima fatica del filmmaker svedese Lukas Moodysson - superstar in patria,
ma noto anche all’estero per film come
Fucking AmAl, Together e
Lilya4ever - si legge che il
film è costato al suo regista 3 anni di lavorazione in 3 continenti e ben 23
versioni della sceneggiatura.
Una fatica inutile, hanno sottolineato i molti fischi che l’hanno accolto
alla presentazione ufficiale in Concorso alla Berlinale 2009 - non fosse
altro che, nella insensata esposizione di un dramma nordico travestito da
no-global-thing newyorchese, non è la cattiva volontà il difetto
peggiore del suo regista.
Certo è che sin dall’assunto iniziale l’originalità non fa grande sfoggio di
sé. Lui (Gael Garcia Bernal) e Lei (Michelle Williams) sono belli ricchi e
felici, come una qualunque famiglia americana dei film troppo hollywoodiani
per essere veri. Hanno una figlia come loro bella buona e intellegente, un
frigorifero pieno, una terrazza con tapis-roulant, mestieri accattivanti e
motivanti (di quelli che nel resto del mondo sembrano sempre troppo
hollywoodiani per essere veri). Hanno addirittura una nanny filippina, lei
sì povera, o almeno costretta a lavorare nel primo mondo per mandare i soldi
nel terzo e allevare i figli piccoli, che piangono al telefono mentre lei
gioca con la bionda bambina americana (anche lei troppo hollywoodiana, ça
va sans dire).
Poi un giorno Lui è costretto ad un viaggio di lavoro in Thailandia - che
però, lontano dalla famiglia e dal suo mondo, lo vive come una giornata in
miniera al Borinage. Lei, chirurgo, soffre per i pazienti da operare, soffre
per la mancanza del marito, soffre per l’affetto della bambina verso la
nanny.
Il viaggio, sia chiaro, nel film dura dieci, forse quindici giorni - la
famiglia (che sembra hollywoodiana ma è atrocemente nordica), schiacciata
dalla solitudine (come ogni buon film danese insegna, e non è un caso che
Mammoth sia, più che un
titolo svedese, un figlio informe di una possente joint-venture
pan-Zentropa), comincia ad appassire: tensioni, conflitti, crisi di pianto e
tormenti esistenziali aprono la strada alla tradizionale sequela di
disgrazie.
La differenza tra un film nordico [genere danese-Zentropa] buono ed uno non
buono - dice la stampa incattivita dai festival - risiede nel tempo che
passa tra l’esposizione della felicità e l’avviarsi dell’infausta pioggia di
tragedia. Insomma, cambia la quantità, la tipologia, ma non la qualità. Le
tragedie di un certo tipo di film nordico [sempre genere danese-Zentropa]
accadono sempre, gravi e devastanti per la famiglia in primis.
E non è, dunque, un difetto di buona fede del regista a fare di
Mammoth - che in fondo apre i rubinetti della sfiga a 40 minuti della
fine - il brutto lavoro che è, ma forse, al contrario, proprio il suo
eccesso: il voler dichiarare il rischio di contaggio del primo mondismo ai
danni del terzo, la piaga della schiavitù sessuale, l’abominevole disagio
dei belli, ricchi e felici, l’incapacità della tecnologia di unire le
persone, l’incomunicabilità della comunicazione.
Insomma, un calderone anonimo di buoni sentimenti, cinismo scandinavo,
perbenismo americano con svolta finale.
Uffa, che noia.
18/30
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FOrever
enthralled
di Chen Kaige
Cina 2009, 147'
Concorso |
 |
di
Celia LEVI
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Non esiste
un buono o un cattivo soggetto per fare un grande film. Ecco cosa ci hanno
insegnato i registi della Nouvelle Vague e Bazin per primo. Nel caso
presente la storia di FOREVER ENTHRALLED potrebbe essere interessante,
ripercorre la vita del più famoso cantante dell’opera di Pechino.
Questo lunghissimo film si iscrive in un genere ben noto: il melodramma. Di
solito nel melodramma la narrazione si limita ad un elemento che comprende
problematiche universali. In A TIME TO LOVE AND A TIME TO DIE di Douglas
Sirk, l’amore tra i due protagonisti è contrariato dalla guerra, lei è ebrea
e lui è un soldato tedesco, la fine non può essere altra che tragica. La
morte del personaggio deve essere considerata come paradigmatica,
rappresenta la sconfitta della Germania, e da un certo punto di vista la
FINE DELLA STORIA. FOREVER ENTHRALLED si svolge durante la seconda guerra
mondiale. L’invasione della Cina dal Giappone è anche percepita dai cinesi
come fine della Storia. A questa fine imminente, la storia del film risponde
che se la Storia con la S maiuscola si ferma, lo spettacolo, l’opera di
Pechino, deve andare avanti. L’opera rappresenta l’anima della Cina, il suo
essere profondo. Recitare e cantare non servono solo a divertire ma
diventano un modo di resistere ci dice il maestro del protagonista. Ma
quando il protagonista verrà costretto a cantare per divertire i Giapponesi
si rifiuterà di farlo. Queste due visioni opposte (quella del maestro e
quella dell’allievo) della resistenza simboleggiano due visioni antagoniste
del teatro, una trascendentale, l’altra immanente o contingente.
A questo antagonismo profondo la morale del film risponde con una facilità,
una mediocre via di mezzo, che è una non-risposta : “lo spettacolo è Storia
ma in certe situazioni bisogna sparire dietro la Storia”. I conflitti prima
di apparire si risolvono tutti nella “sparizione” , “sparizione” della
Storia quando si tratta dello spettacolo, dello spettacolo quando si tratta
della Storia. La Cina vince sul Giappone, lo spettacolo può riprendere ma la
Storia è scomparsa. Nello stesso modo l’amore deve “ sparire” davanti allo
spettacolo. Il maestro costringe l’amante del protagonista a sparire perchè
non disturbi il cantante.
Perché no? Solo che questa storia d’amore “vient comme un cheveux sur la
soupe”. Perchè una cosa scompaia, bisognerebbe che sia già apparsa. In
realtà, si tratta di una grossolana convenzione che decentra un racconto già
troppo dispersivo. Infatti se ci fosse una storia di amore sarebbe piuttosto
tra il maestro e l’allievo. A meno che si tratti ancora di un antagonismo:
all’amore omosessuale per forza casto ( “sono una persona pulita” dice il
maestro) si opporrebbe l’amore eterosessuale (non meno casto nei fatti ma
con una pericolosa potenzialità carnale). Questa volta Chen Kaige risponde
al suo malgrado, come Platone, che l’amore tra uomini avvicina all’ideale.
Ma l’argomento ancora una volta non è approfondito, appena sfiorato sparisce
una prima volta davanti alla vita coniugale, una seconda volta dietro
l’amore adultero. A furia di fare calare il sipario, Chen Kaige gira una
“chinoiserie” dispersiva, di una lentezza che sconfina alla noia, dalle
immagini stereotipate e di una grande banalità .
21/30
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Rossiya 88
di Pavel Bardin
Russia 2009, 104'
Panorama |
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di Valentina DI MICHELE
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Il
momento più raggelante di Rossiya 88
di Pavel Bardin - presentato in una affollatissima sala del Cinestar al Sony
Center - è l’elenco di nomi che chiude i titoli di coda: la lista include
infatti tutte le vittime (oltre 150) cadute nella sola Mosca nel 2007 per
mano di gruppi neo-nazi, fenomeno in clamorosa ascesa in tutto il paese.
Nella docu-fiction, raccontata attraverso i filmini che la gang di skinhead
Rossiya88 gira per Youtube, Alexandr - Sasha per la famiglia e Blade per i
compagni - appena ventenne, bello, intelligente e disoccupato, passa le sue
giornate in un club neo-nazista dove si allena, fisicamente e mentalmente,
all’epurazione dello straniero.
Il contesto sociale di Sasha e dei suoi colleghi mischia disagio,
prospettive di vita ridotte e ideologie nazionaliste low-cost, aspetti che
si specchiano (e trovano, evento ancor più agghiacciante) una loro misura
nelle (vere) testimonianze della gente comune raccolte per strada o sulle
metropolitane.
Bardin
narra, con estremo realismo, la quotidianità esasperata di ragazzi senz’arte
e senza futuro, a caccia di un capro espiatorio e una vittima predestinata
(cinese, caucasica o in generale straniera) per soffocare le difficoltà
esistenziali e materiali di un sistema al collasso.
La pellicola, come ha aggiunto il regista, è costata pochissimo, data la
estrema facilità nell’ordinare le uniformi indossate dai protagonisti del
film su siti internet, acquistare libri dell’ideologo nazista David Lane o
terrificanti canzoni della destra radicale in media-store specializzati in
prodotti illegali.
Nel crescendo, glaciale e tagliente, di violenza e morte che porta ad finale
shakespeariano, i numeri, i nomi e i fatti sono reali, come il silenzio e
l’accondiscendenza della polizia ed il malessere di un universo tragicamente
prossimo ad una sorda implosione.
24/30
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An Education
di Lone Scherfig
Gran Bretagna/Stati Uniti
2009, 100'
Berlinale Special |
 |
di
Celia LEVI
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An Education è una
commedia che riprende un tema classico: l’educazione sentimentale di una
giovane ragazza romantica che si emanciperà al contatto del principe
azzurro, che poi si rivelerà un bugiardo incallito. Nel fra tempo, questa “
jeune fille rangée” avrà perso la virginità, visitato Parigi e conosciuto la
“grande vie”. Questa vita dissoluta metterà in pericolo la sua vita futura
e i suoi progetti di studiare ad Oxford. Tutto si risolverà in un Happy-end
scontato e moraleggiante.
Il problema che si pone, oltre
alla morale piccola borghese e puritana, è di sapere quale è, oggi, la
differenza tra il cinema e la televisione? Sembrerebbe, questo film ne è la
prova, che la frontiera tendesse a cancellarsi. Non che i telefilm, serie, e
altri soap-opera europei (il discorso è molto diverso per la produzione di
serie americane) sarebbero di migliore qualità ma al contrario, il cinema
imiterebbe sempre di più la televisione.
Che la storia sia vista
attraverso lo sguardo e i sogni di quattro soldi di un’adolescente non ha
niente di reprensibile, ed è anche un grande classico ( sia della
letteratura, che del cinema). E avrebbe potuto dare nascita ad una commedia
molto carina. Negli anni cinquanta se ne producevano a palate, di queste
favole moderne dal casting da sogno, che si rivolgevano a un pubblico
sopratutto femminile, dalla casalinga “alla fanciulla in fiore”.
Sabrina di Billy Wilder è uno
dei film più rappresentativo del genere. Il parallelo tra i due film
s’impone da sé. Non mancano i riferimenti ma sarebbe un po’ lungo farne
l’elenco, ci accontenteremo di mettere in rilievo uno degli aspetti più
rilevante. La fanciulla, nel corso del film, si trasforma in Audrey Hepburn
(lo esige la ricostituzione degli anni '60?) mentre Sabrina nel film di
Wilder si trasformava in donna - ovvero in Audrey Hepburn, l’attrice. Per
riprendere il termine di Walter Benjamin, ma facendone un controsenso,
guadagnava una specie di “aura”. La giovane attrice di
An Education, nonostante la somiglianza con Hepburn, ne in realtà un
“ersatz”, un sotto-prodotto. Non ne è la copia o la variazione sul modo del
remake, o piuttosto si, ne è la copia, il remake televisivo, cioè la forma
svuotata della sostanza. La differenza tra il film di Wilder e quello di
Lone Scherfig è ontologico, è la differenza tra il cinema e la televisione.
L’immagine televisiva è una presenza-assenza, un fantasma
(Günther Anders). Mentre l’immagine cinematografica è evento, l’immagine
televisiva è non-evento, si presenta sotto la forma della perdita. L’essenza
del cinema, “l’espressione della durata concreta” secondo Bazin, per Deleuze
l’immagine movimento e l’immagine-tempo, è totalmente assente nel film
inglese. Come in una serie t.v, ogni inquadratura è schiava di un tempo
fittizio che non è ne quello del piano-sequenza ( nel quale il montaggio
tende a cancellarsi), ne quello “ dell’ espressione”: rielaborazione del
reale attraverso il tempo astratto del montaggio. Il tempo della sequenza è
assoggettato a delle unità di azione indipendenti le une dalla altre : la
cena della ragazza con i genitori, entità significativa ma molto
insignificante, la stessa che ascolta musica in camera sua o che sta seduta
in un bar con le amiche. L’indipendenza di queste sequenze ne crea delle
ellissi. La parte interpretativa impartita allo spettatore viene negata,
perché lo spettatore non sa dove cercare le briciole di tempo assente,
quello altrove, ovvero il fuori-campo. Il montaggio non crea fuori-campo,
non crea temporalità, li caccia via.
Ne risulta che il film, in
quanto film si nega. Ed è forse la caratteristica dalla televisione - del
mondo dello spettacolo - di negarsi, di essere nel non essere,
cioè il colmo dell’aporia.
25/30 |
Singularidades de uma Rapariga Loira
di Manoel de Oliveira
Portogallo/Spagna/Francia 2009, 64'
Berlinale Special |
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di Maurizio BUQUICCHIO
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Il percorso,
o il mistero, di vita e di cinema di De Oliveira rende difficile, se non
proibitivo, il compito di scrivere dei suoi film. Nella maggior parte dei
casi, un regista arrivato ai 70, o agli 80 anni inizia a ripetere lo stesso
film, affinando di pellicola in pellicola la propria maestria, consolidando
la propria visione della vita, dedicandosi con sguardo sempre più amorevole
a filmare ciò che più ritiene bello e meritevole di attenzione, nel mondo. È
così che possiamo godere, per fare un esempio, degli splendidi, ultimi film
di Claude Chabrol. Un epicureo, come lo è manifestamente il francese, ci
mostrerà un buon vino, la quiete scherzosa di una coppia borghese, il bello
"scheletro di piede" di una giovane ragazza. Nell'incipit di Bellamy
Depardieu si reca in un magazzino di bricolage per comprare delle mensole:
non sarà necessario un legno di qualità, poiché i polar sono "libri
leggeri". In questo, e nei moltissimi altri giochi di parole di cui è
punteggiato il film, possiamo leggere un dialogo indiretto, assolutamente
consapevole ed "enunciativo" con lo spettatore: Chabrol tira le somme del
proprio cinema, riconoscendone la natura ludica, dionisiaca e non per questo
frivola o ricreativa. Il genere, l'eredità hitchcockiana e langhiana, lo
"studio" dell'infinita gamma di sfumature legate al sentimento della colpa,
vengono ribaditi e riesplorati ad ogni nuovo film. Quando guardiamo al
cinema di De Oliveira le cose si fanno molto meno chiare, meno definite. Un
regista la cui età è vicina a quella del cinema stesso, e il cui iter sembra
ben lungi dall'essere concluso. Vi è una continua evoluzione, nel linguaggio
(Espelho Magico), nel
rapporto con i propri fantasmi cinefili (Belle
Toujours), nella visione politica (Um
Filme Falado) e storica (Cristovao
Colombo - O Enigma o l'esilarante corto "Rencontre Unique",
sull'immaginario incontro fra Krushev e il Papa).
Laddove ci sembra di aver a che fare con un "cinema-filosofia" (O
Principio da Incerteza, Palavra e
Utopia) ci ritroviamo in un
"cinema-opera" (Quinto Imperio).
Ecco che con i suoi ultimi corti ("O Vitral e a Santa Morta" e "Romance de
Vila do Conde") e soprattutto con il suo ultimo, eccezionale film
Singularidades de uma Rapariga Loira
forse De Oliveira ci dice qualcosa di definitivo (chissà) sul proprio
cinema, e sul cinema in generale. La vocazione più profonda del regista
portoghese è quella del poeta. L'osservazione della natura, alla maniera dei
classici (pensiamo soprattutto al Lucrezio del De Raerum Natura o ai
poemi di Ovidio), può esprimersi anche attraverso il cinema, e non necessita
di "conflitto" o "dramma", a differenza di quanto, tanti guru del cinema
(non solo americano) e della narratologia ci hanno a lungo ripetuto. Il
potere evocativo della parola, in poesia, è in Singularidades de uma
Rapariga Loira quello di una semplice immagine, ripetuta, lieve, ancora e
ancora. Si tratta dell'immagine del ventaglio, non della "singolare ragazza
bionda", ma del bel ventaglio che la nasconde, descritto reiteratamente dal
protagonista. Il poema di Pessoa, letto appassionatamente da Miguel Cintra
(nei panni si sé stesso) è una sintesi della visione di De Oliveira: laddove
il socialista, compatendo il disagio del povero, crede di essere in sintonia
con la sofferenza del mondo, è solo il poeta, consapevole dell'inerzia della
natura, leggero come lo scorrere di un fiume o immobile come una pietra, a
poter partecipare davvero della vicenda umana. Non è reazionario, il De
Oliveira che mette in discussione il relativismo culturale (Um
Filme Falado), che canta le virtù della propria terra (Cristovao
Colombo - O Enigma) o che si prende gioco della crisi economica,
mostrando due personaggi scherzarne sullo sfondo di un lussuoso salotto
lusitano (nell'ultimo film).
Il cinema di De Oliveira non ha nulla di reazionario, come non lo ha la
poesia di Pessoa recitata da Cintra, esso è piuttosto un inno alla
sottigliezza, alla contemplazione, opposta agli spasmi e alla frenesia di
ciò che è mondano, o politico, in senso spicciolo. Seppure sfuggente,
inafferrabile, Singularidades de uma
Rapariga Loira è, come ne dimostra la conclusione, una storia.
Semplice, ridotta all'osso, essa mantiene, della parabola, la funzione
morale. Morale, e politico, può essere per De Oliveira, così come per
Pessoa, solo una vita degna, o più semplicemente, umana.
30/30
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the day after
di Lee Suk Gyung
Corea del Sud 2009, 88'
Forum |
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di
Celia LEVI
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La
fama del cinema coreano è nota a tutti, che si tratti di cinema d’autore
come quello di kim Kee Duk o del cinema di genere come quello di Bong
Joon-Ho. Tra questi due estremi c’è il prolifico Hong Sang soo il quale
ultimo film Woman on the beach
non è neanche uscito in Italia ed è uscito solo in due sale a Parigi.
L’argomento di The day after
è molto semplice e universale, una donna di mezza età che ha una figlia
entra in crisi perché non riesce a superare il recente divorzio. Potrebbe
essere il soggetto di un film di Hong sang Soo ma là dove Hong-Sang-Soo
costruisce grazie a piani fissi una tensione molto forte tra i personaggi e
li iscrive nel tempo e lo spazio del piano, Lee-Suk-Gyung si disperde,
sopratutto nella prima parte del film. HSS non ha paura di essere ellittico
e di non presentare i personaggi perché ha capito che i sentimenti profondi
e le tensioni si trasmettono nell’immobilità bensì che nel movimento
irrequieto di una macchina da presa che muovendosi continuamente perde di
vista il suo oggetto, ovvero la difficoltà di vivere. La prima parte del
film è tutta incentrata sulla presentazione piuttosto maldestra della
protagonista che vagabonda tra un lavoro non molto interessante, amici poco
comprensivi e la scrittura di un libro che non va avanti. Questo errare
potrebbe giustificare la frammentazione della struttura narrativa come
specchio della dispersione interiore del personaggio. Sfortunatamente il
film crea solo un impressione di noia e di ” déja vu” . Le scenette si
susseguono tutte uguali e insipide. A volere mostrare troppo il regista non
mostra niente o solo la superficie. Il paragone con il film di Hong- Sang
Soo sembra forse un po’ facile ma nasce da un sentimento assurdo: se Hong
Sang-Soo avesse girato il film ne sarebbe uscito un capolavoro. Quel
rimpianto mostra tuttavia che qualcosa c’è da rimpiangere; è in questa
mancanza che ci si scorge che c’è un contenuto: Il film se, in effetti,
trabocca di difetti è anche pieno di possibilità che si concretizzano
finalmente in una lunghissimo huit-clos tra la protagonista e la sua
compagna di stanza di un albergo. Lee Seek Gyung prende il tempo di fare
crescere le tensioni, la macchina da presa è molto meno presente e lascia la
libertà ai personaggi di esporre i loro dubbi, la loro sofferenza o
insofferenza, in una parola di essere. Le parole come i silenzi prendono un
vero significato e questa lunga sequenza riesce ad interessare lo spettatore
e anche a commuoverlo. Truffaut parlava di grand film malade per i
film mancati di grandi registi come Becker o Renoir. Per questo film forse
potremo usare l’espressione petit film malade.
22/30
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Cea mai fericită fată din lume
(The Happiest Girl in The World)
di Radu June
Romania 2009, 90'
Forum |
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di Valentina DI MICHELE
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“Mi chiamo Frăilă Delia Cristina e sono la ragazza più felice del mondo”.
Non è facile essere la ragazza più felice del mondo, neanche solo per il
tempo di uno spot promozionale di una bibita giallastra — quando lo spot
dura un’intera, torrida giornata nel cuore di Bucarest, il regista ha
aspirazioni artistiche e grida di continuo di bere di più, lo sponsor è
insoddisfatto e pretende sorrisi impossibili, la troupe parla di sesso e
sciocchezze e intanto la luce del giorno va via e bisogna cambiare location.
L’esordio alla regia di Radu Jude - un passato nel cortometraggio
pubblicitario ed il sostegno provvidenziale del Sundance e del Fondo Hubert
Bals di Rotterdam, grazie ai quali è riuscito a portare a termine il film -
è una commedia divertente e apparentemente leggera, che affronta da un punto
di vista diverso temi ben più gravi, come “la tristezza, il consumo, il
capitalismo, e come certi genitori manipolano i sogni dei figli per coronare
i propri”.
Delia è arrivata con i genitori a Bucarest a bordo di un’automobile vecchia
e fatiscente dopo aver vinto un concorso con una bibita. Il premio è girare
uno spot e portare a casa l’automobile dei sogni, che la ragazza vorrebbe
tenere per portare a spasso le amiche più abbienti.
Delia si sente poco bene, fa caldo, la madre la rimprovera di continuo, in
un tira e molla sfiancante nel quale vuole convincerla a vendere l’auto per
aprire finalmente un’attività commerciale di famiglia.
Delia è debole ma ha tante speranze, vuole studiare nella capitale, avere
una macchina sua e magari trovare un lavoro, ma non riesce ad opporsi ai
tanti, troppi scogli che in un solo giorno si frappongono tra lei e la
felicità. Felicità che, però, va mostrata a sorriso pieno davanti alla
telecamera, nonostante la troupe sia insoddisfatta di lei, dei suoi vestiti,
di come pronuncia le frasi.
Se non originale, lo script sa però raccontare con delicatezza e umorismo
una storia preziosa proprio perché banale, quella di una persona comune
davanti al suo sogno, alla gioia per averlo di fronte, alla rassegnata
impossibilità di dargli un futuro.
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59.ma berlinale
Berlino, 05 - 15 Febbraio 2009
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