D’une Rive à l’autre

 

Christian-Pierre La Marca

Madjid Kaladj
J. S. Bach, Suites per violoncello n.1 e 3

 

Sale Apollinee, Gran Teatro della Fenice

Venezia 03 aprile

 

di Gabriele FRANCIONI

 

30/lode

 

Collegamenti:

- Introduzione

- SVC

Magia da camera, ma musica “sinfonica” in senso traslato e –volendo- etimologico, poiché anche in assenza di un énsemble propriamente intesa, qui conta il syn greco, l’essere “insieme”, l’incontro perfettamente riuscito di due visioni musicali, oltre che di due mondi, lontanissime.

è successo più di quello che ci potevamo aspettare, poiché la performance di Kaladj e La marca, una volta esposta la qualità eccelsa di entrambi i musicisti, si è immediatamente spostata su un piano di altissimo ragionamento estetico e strutturale, mantenendo intatta una qualità fascinatoria  mai ascoltata prima.

 

In sostanza le Suites bachiane per violoncello (qui la Prima e la Terza), ovvero un complesso che costituisce di per sè una delle massime sistemazioni di arte contrappuntistica, composta (1620) in un periodo di transizione decisamente orientata verso la tonalità,

incontrano la modalità persiana  declinata sub specie percussiva.

 

Almeno in teoria, un ossimoro.

Il vero zenith dell’incrocio tra questi universi sta nell’idea di danza e, in parte, d’improvvisazione.

 

Prendiamo, dei sei movimenti in cui si suddividono le Suites, il quarto: si tratta di una Sarabanda, danza in 3/4 attribuibile come origini più vicine alla Spagna, ma di matrice orientale, considerata lasciva in epoca pre-bachiana.

Bach dimostra, a modo suo, una propensione, quindi, etnomusicologica, oltre che filologica nel far suoi i canoni della suite barocca: dopo un Preludio  in forma di Toccata, ecco infatti l’Allemanda, danza moderata in misura binaria, usata nei paesi tedeschi durante le processioni; poi la Corrente, brillante, dove si anticipa il ritmo ternario, originatasi nel ‘400 come danza popolare, per poi diventare danza di corte; ecco quindi la Sarabanda ( e il ritorno dei ¾); seguono i Minuetti, danze eleganti della corte francese, (nella Terza Suite invece abbiamo una Bourrée giocosa). A chiudere, sempre una Giga, vivace danza irlandese o scozzese.

 

 

Al di là di un contesto di partenza già profondamente aperto a influenze multinazionali, a pensosità religiose (l’Allemanda) come a derive di allegria e godimento quasi oscene (la già citata Sarabanda ha i secondi e terzi accenti della battuta spesso legati, così da produrre un ritmo particolare di semiminime e minime alternate, le prime essendo ritenute corrispondere ai passi trascinati nella danza: quindi,appunto, lascivi…), ciò che ci convince dell’interpolazione possibilissima di Occidente e Oriente è la “strumentazione” scelta da Madjid Kaladj, persiano, nell’accompagnare il talento di Christian-Pierre La Marca.

In silenzio durante Preludi/Toccate, Kaladj usa il tombak - vaso ricoperto con pelle di pecora, accordabile dal basso tramite un perno metallico - per le Allemande e le Courantes, prima limitandosi a chiudere le misure con un semplice battito centrale (mano destra) o brevi serie di “note” alte con la mano sinistra, quindi aumentando, con “gruppetti” sempre più accentuati, il suo contributo musicale (siamo nelle più allegre Courantes).

Come forse era già comprensibile, i risultati più straordinari si ottengono nella Sarabanda.

La danza ternaria è accompagnata dagli zang-e-sarangoshti, piccoli anelli/nacchere metallici usati in coppia (letteralmente: “suono con la punta delle dita”) e contribuiscono meravigliosamente ad alzare la temperatura emotiva del brano, individuando zone sincretiche di suono condiviso e universale.

Il momento più “orientale” è quello di maggiore sintesi.

La scansione conferita alla composizione dagli zang ne garantisce quasi la visibilità coreografica. E, seppur sempre Kaladj agisca in ambito improvvisativo, le chiusure e le sottolineature poste a metà o a fine battuta risultano straordinariamente pertinenti e servono la composizione bachiana come mai ci saremmo aspettati.

Per i Minuetti, ecco invece il dayereh (tamburello con banda bassa in legno, pelle di pecora e anelli), che nella Bourrée della Suite n. 3 lascia il posto al più grande daf (o nafas) , di origine curda e prediletto dai dervisci, allo scopo di riprodurre, con catenelle al posto degli anelli, il respiro della trance mistica dei religiosi danzanti.

Finale con zang anche nelle coloratissime Gighe.

 

 

è opportuno ricordare, se ce ne fosse bisogno, che ascoltiamo musica quasi totalmente an-accordale, dove semmai (si veda l’incipit del Preludio della Suite n.1) l'accordo va ricostruito a posteriori, ascoltando l’arpeggio ripetuto e cogliendo la tonalità di Sol maggiore, pur con le successive aggiunte di note introdotte poco a poco e che hanno spinto non pochi jazzisti a desiderare delle variazioni sul tema.

Gli improvvisatori di diversa estrazione, jazzisti o musicisti orientali che siano, interpreti di musica modale, sembrano quindi i primi, inaspettati estimatori di Bach!

Tutto questo per dire che, in un sistema prevalentemente orizzontale, senza la verticalità di un’armonia che fa capolino rarissimamente, l’idea d’improvvisazione sembra pura follia.

Eppure, e qui sta la magia da camera cui accennavamo, è merito di Kaladj e La Marca capire quando il musicista persiano può trovare le corrette zone entro cui applicare la sua maestria improvvisativa “orizzontale”.

Il pedale di sol quasi nascosto del preludio, a suo modo, poteva sembrare una negazione del contesto an-accordale:ma, ovviamente, è solo un cenno.

 

Danza-strumentazione-improvvisazione: in chiusura di ogni Suite, i musicisti, preparati da ciò che hanno appena suonato, danno vita ad alcuni minuti di vera improvvisazione.

Ancora una volta, dobbiamo ammettere di non aver mai udito sperimenti così arditi. Grande merito ad Arièle Butaux!

 

 

Prima Kaladj, poi La Marca, cominciano a lavorare la materia musicale seguendo (il primo) le scale di note percussive proprie della tradizione persiana, dove, sia chiaro, per gruppi di 4-12 o 15 suoni, se ne danno sempre alcuni in posizione fissa.

La prima improvvisazione ha avuto un tono complessivo più meditativo, con Kaladj dominante impegnato al tombak, che strutturava con sempre crescente sicurezza una matrice sonora poi sviluppata in trance da derviscio, più che in danza “occidentale”.

Impressionante, nella sua impensabile forza interpretativa, la seconda improvvisazione, che ha avuto il culmine in un insistere magistrale di La Marca su un ostinatissimo, vibrante pedale di basso.

Improvvisamente, il musicista occidentale è diventato qualcosa di altro da sé, è trasmigrato, con tutto il suo (nostro) bagaglio, in una dimensione diversa, allogena, ma poi riconosciuta come propria.

 

 

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Madjid Khaladj

Christian Pierre La Marca

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