la biennale di venezia 2009
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30/e lode |
O della Sintesi Multimediale
“Swan Lack” gioca iconoclasticamente con il “Lago (lake) dei cigni”: è l’autopresentazione irriverente, l’inchino con sberleffo di Michael Clark al pubblico. Poi “Thank U Ma’am”, rivisitazione à rebours dell’iconografia glam-rock tra 1973 e 1978, sull’asse Berlino-Londra, riporta in vita un sistema di segni e suoni che preparò il terreno alla rivoluzione involontaria capeggiata da Vivienne Westwood, Malcom Mc Laren e John Lydon. Ergo: musiche degli inevitabili David Bowie e Brian Eno (citati ovunque, sono come gli esami fondamentali di un corso di laurea in estetica), con doverosa intrusione dell’americano James Osterberg, a.k.a. Iggy Pop (buono per un complementare). Attenzione: mancano completamente Lou Reed e Marc Bolan (le Tesi).
Come fa Clark, partiamo dalla fine.
2) THANK U MA’AM
"From station to station / back to Düsseldorf City / Meet Iggy Pop and David Bowie" (da “Trans-Europe Express” dei Kraftwerk). Attitudine punk, magistero classico, intelletto eccelso.
Un’ondata di colori, suoni, luci, figurazioni, gesti e scatti ci sommerge, centrifugando la memoria collettiva, acquisita grazie alla Rete, di un periodo che ormai sta al rock’n roll come il giurassico alla storia del pianeta. Cinque anni cruciali, durante i quali gli effetti speciali di un nuovo ottimismo postbellico - gli Americani stavano per lasciare il Vietnam - vennero presto riconvertiti nel definitivo de profundis del flower power, la cui ultima, policroma declinazione fu la demenziale versione paillettata del mod anni ’60: il glam(our) rock, appunto. L’intuizione geniale di Clark sta nell’aver scelto di connettere l’ultimo desiderio di liberazione - soprattutto sessuale - della cultura giovanile, con la propria definitiva implosione. Dai mille colori di una musica che si era fatta (quasi) solo immagine, al buco nero di una desolazione astratta - poi diventata epitome del drammatico sound-Joy Division - che diventa Luogo, ambiente, spazialità senza diaframmi fisici ma attraversata da linee sonore.
ONE SIDE: i sexy boa di piume di struzzo di Marc Bolan, il trucco di Ziggy Stardust e l’eyeliner raddoppiato da rossetto nero di Lou Reed. OTHER SIDE: il nihilismo punk, la cupa meditazione di Bowie e dei Kraftwerk all’ombra del Muro di Berlino e il minimalismo ambientale di Eno, contrappunto alla quotidianità trasandata ma essenziale di un vivere lontano da tutto.
THANK U MA’AM (grazie, signora) inizia dalla fine, da questa implosione, per raggiungere, in coda, l’esplosione folle del glam. Inverte la sequenza cronologica per poter meglio esporre la propria linea interpretativa ed espressiva: i primi quadri coreografici concepiti sulle algide strutture di “Mass Production” (Bowie/Pop) e “Sense of Doubt” (Bowie), prendono i toni bi o tricromatici di costumi marziani e rendono esplicita l’intenzione di restituire colore a una musica fattasi spazio. Nella coda di “Aladdin Sane”, quasi agli esordi del glam, lo spettacolo si chiuderà invece con l’astrazione spaziale di altre tute marziane.
Insomma, il coreografo britannico non guarda indietro con rabbia, does-not-look-back-in-anger, per dirla con Osbourne e Bowie stesso, riuscendo nell’impresa di restituire con gesto calibrato e maestria classica un materiale espressivo al contempo gelido e sulfureo. Resiste alla tentazione di allestire una replica mimetica di topoi estetici digeriti da tempo e, soprattutto, alla scontata aspettativa di critica e pubblico, che avrebbero immaginato dominante l’opzione glam o una chiave di lettura estrema e, per così dire, provocatoria di default. Anche se lo stile e il trademark del coreografo sono assolutamente presenti !
Clark sa che, presa dalla testa o dalla coda, nel freddo o nel caldo, questa è una musica diventata universale, come Satie o Strawinsky, straordinariamente portati in scena nel recentissimo passato. Non le servono sottolineature, ma nuovi sguardi.
Attraverso l’interpolazione della figura di Eno, anzi, Clark riesce a volare alto e a licenziare una riflessione molto profonda: qui si era agli albori della multimedialità, dell’immagine che collabora con la musica o si sostituisce ad essa; del prodotto complessivo - copertina dell’album/look dell’artista/canzon - venduto subliminalmente come se si trattasse ancora di un semplice pezzo di vinile. Brian Eno, definito già nel 1969 “tecnico multimediale” in uno studio londinese, passò come Bowie da cipria e tacchi-grattacielo al suono assoluto. THANK U MA’AM è quindi un lavoro sui primordi del Multimediale: vediamo anche uno dei primissimi video dell’epoca (“Heroes”, 1978), trascinato da destra a sinistra sul muro laterale delle Tese, e usato in maniera quasi analogica, plasmato quasi appartenesse anch’esso al corpo di ballo. Restituito, in questo infinito gioco di contrari, alla sua corporeità tridimensionale. Lo spettacolo è anche una delle esperienze multisensoriali di maggiore impatto tra quelle offerte dalle ultime edizioni della Biennale, ben oltre l’ambito settoriale della sola “Danza”. (Commissionato dall’European Network of Performing Arts - il progetto europeo che la Biennale condivide con il festival londinese Dance Umbrella e il centro di Stoccolma Dansen Hus - e dal Barbicanbite09, nonché sponsorizzato da Edinburgh International Festival, Grand Théâtre de la Ville de Luxembourg, Maison des Arts de Créteil e dalla stessa Michael Clark Company).
Come per “Antigone” di Lemming Teatro, o “Inland Empire” e “Drawing Restraint” (Cinema), fino all’“Exit_01” di Luca Francesconi (Musica) e al personale gabinetto caligareano di Nathalie Djurberg (Arte), veniamo trasportati all’interno di una dimensione d’indefinita estasi, costruita sull’attraversamento e superamento di territori e confini espressivi che pochi riescono a saltare col gesto folle di una creatività virtuosisticamente perversa, deviante, oltr/aggiosa. Andare Oltre, il diktat è questo per tutti i Direttori veneziani, non solo per l’Aaron Betsky un po’ incerto del 2008.
-MASS PRODUCTION: suono di sintesi, moog in sottofondo e lamenti di Iggy Pop. Il fondale è di luce verde. Entrano dal basso del lato destro del palco due ballerini, che segnano una diagonale a 45 gradi verso il centro del palco, dove fanno perno e si dirigono in basso a sinistra. Costume OP con retro nero e davanti bianco e beige. Vago sentore di “L’uomo che cadde sulla terra”, il film di Nicholas Roeg del ’75 con il solito Bowie androide come protagonista. Dal lato destro esordiscono altri tre danzatori: terzetto e coppia s’incrociano sulla diagonale alta, poi, scompaginati, escono separatamente. Ne rientra una, che traccia l’ultima diagonale dall’alto del lato destro, quindi arrivano altri e i quattro si distendono geometricamente (osiamo: sembrano un quadro di Van Doesburg). Kate Coyne, magnifica, si piega all’indietro/ ruota/ s’incrocia con un altro corpo danzante, in tipica figurazione clarkiana. Questo incipit è un saggio di ballo classico, di tecnica eccelsa messa al servizio di “altro”.
-SENSE OF DOUBT: tono basso bowiano, sedia a forma di angelo al centro dello spazio, un ballerino vi è seduto sopra. Due entrate di danzatori dalla destra: iniziano a descrivere “v”, “L” rovesciate e altre figurazioni appoggiandosi uno sull’altro, mai “placati”, ma sempre espressione di una forte spinta reciproca. Si spostano su due lati, mentre quello al centro entra nella sedia da dietro e, tutt’uno con essa, diventa di fatto l’angelo, che esce in basso a sinistra. Tutti in costume monocromo scuro. Luci molto basse, quasi azzerate.
-HEROES: Prime uno, poi due, poi cinque in scena. Indossano tutti una versione alternativa del giubbotto nero di Bowie nel video citato. Viene ripreso, arricchito, lo schema delle “V” ed “L”, ma vengono introdotti i salti. I ballerini si lanciano uno sull’altro , dopo che la coppia iniziale (queen/king) ha attraversato il palco, andando a formare gruppi di corpi ammassati l’uno sull’altro. Sulle parole “nothing will keep us together”, king and queen continuano ad evitarsi, a non incontrarsi.
-AFTER ALL: sullo sfondo viene proiettata la parola “INTERMISSION”. Due soli spot illuminanti. Prima di altre “V” rovesciate, entra e resta in scena il ballerino-angelo, questa volta in una bizzarra tenuta quasi da mare.
-FUTURE LEGEND: il danzatore di AFTER ALL comincia a muoversi lentamente dall’alto a sinistra, fino a descrivere una “N” rovesciata. Entrano altri tre ballerini, che fanno da contrappunto a quel movimento con ampie figurazioni sincronizzate (tutti in costume oscuro), poi escono, rientrano per meno di un minuto completamente nudi in alto a destra, solo per “sculettare” rivolgendo la schiena al pubblico, quindi riescono e rientrano come prima.
-ALADDIN SANE: straordinari i costumi “spaziali”, di un arancione fiammeggiante, illuminati da un’illuminazione “diffusa” dello stesso colore. Entrate progressive di 1, 2 e 3 ballerini (il corpo di ballo è un sestetto) dall’alto a sinistra. Piccoli salti, spesso sulle punte, la solita Coyne si distingue. Bellissima. Spostamenti sempre su diagonali a 45 gradi. Coyne ha una parte in cui danza bendata: a gruppi di 2 incrociati a formare due “X” a terra, altri 4 ballerini aspettano Coyne che descrive sulle punte due cerchi perfetti attorno alle X. “Insane”, folle anche lei, come suggerisce il brano!
-JEAN JENIE: Fuseaux rossi e giacchette corte a righe orizzontali bianche e blu. Il gioco di luci s’intensifica nel finale dello spettacolo. Sempre più sulle punte, i danzatori vanno all’indietro, poi formano tre “V” aperte verso la platea, a coppie. Il brano è dedicato a Jean Cocteau. Chiusura improvvisa sulle note del Bowie pienamente glam del 1973.
1. SWAN LACK
L’incipit della serata aveva visto una variazione eretica sul tema del “Lago dei cigni”, dove veniva quasi anticipato parte dell’approccio “robotico” di alcuni passaggi di “THANK U MA’AM”. Ciò che stupisce è la capacità di tenere insieme le musiche dei Wire - postpunk inglese minimalista, dark, evocativo - le straordinarie luci di CHARLES ATLAS e i costumi di “Body Map”, ovvero tute più semplici di quelle utilizzate nella seconda parte dello spettacolo. Coppie blu e una coppia bianca - the swans - che giocano, come spesso in Clark, a non incontrarsi, ma, semmai, a fondersi, entrando uno nell’altro. Tutto il breve inizio della serata - non più di una ventina di minuti - è un saggio di tecnica classica esibita con orgoglio e leggerezza, sapienza e tenacia, mai fine a se stessa. Otto ballerini si piegano, scelgono piani inclinati immaginari sui quali appoggiarsi, procedono in un’infinito scambio di posizioni, di entrate e uscite, senza il minimo errore. Prima dell’“unisono”/insieme finale, notevoli alcuni sollevamenti agìti da ballerine nei confronti dei loro colleghi maschi. |
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la biennale di venezia 2009
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