venice 2009 the summer of art

Avvicinamenti alla Biennale

 

Necessari “à rebours”: ITALICS, Arte Italiana tra Tradizione e Rivoluzione

Venezia, Palazzo Grassi 2008-2009

di Gabriele FRANCIONI

 

Nel momento in cui il dibattito artistico vive di moderate contrapposizioni, tra le quali oggettuale vs neoneoprocessuale, mono (spesso inteso come sola pittura) vs multimediale o interdisciplinare, demiurgico-cosmogonica versus condivisa etc, l’unica vera figura di Demiurgo che si dia per statuto e non per libera scelta è quella del Curatore-Star. 

Il parallelo con l’artista (ri)creatore di mondi, filosofie, credi pagani, si sostanzia in questi termini: quello che il critico o il pubblico fanno nei confronti del primo, giudicandolo pur rimanendo estranei all’atto generativo nei confronti del quale possono solo porsi in maniera estatico-cogitativa e non partecipativa, viene sostituito dalla multiforme serie di commenti-osservazioni-gossip  di tutte le figure che lavorano-agiscono-teorizzano all’interno del sistema Arte, ben consci che nulla è più impositivo e anti-dialettico di una selezione di opere agìta dal singolo.

 

Francesco Bonami si è sottoposto al martirio e agli strali degli oppositori di ITALICS ben prima della sua apertura, consapevolissimo che questa ricreazione/rilettura (demiurgica, appunto) di un periodo chiave della nostra storia recente - il post-Sessantotto allungato fino all’oggi - avrebbe portato a una sollevazione generale, che, come sempre in questi casi, è segnata da irritazione e sdegno direttamente proporzionali all’impotenza del fruitore di fronte a un (Nuovo?) Mondo interpretativo calato dall’alto.

 

Sia chiaro: la fonte d’ispirazione cui il curatore attinge per una “retrospettiva”, e non una qualche monografica di eventuale talento nascente, può anche essere secca. I criteri possono anche essere giocosi o perlomeno stocastici, poiché non si è chiamati a plasmare qualcosa di nuovo e amorfo, ma a lavorare con stratificazioni interpretative che a volte, per la loro perentoria assolutezza, possono sembrare avvicinabili a verità date.

 

Sta di fatto che il Bonito Oliva transavanguardista regalava ai suoi adepti, ex-novo, un corpus teorico che ne compattava le fila sino a generare magicamente e quasi dal nulla quel movimento artistico poi assunto unanimemente a mo’ di epitome espressiva degli anni Ottanta “anticoncettuali”, mentre l’ABO delle “Parole dell’arte” (MART, 2008) è sembrato più a disagio con un secolo (!) di storia che chiedeva organizzazione.   

Insomma, il curatore agisce comunque da demiurgo, ma ciò gli riesce molto più difficile se chiamato a lavorare sulle retrospettive.

Non pensiamo che Kounellis o Vedova, per motivi diversi, vengano messi in discussione a causa di Italics o che Patrick Tuttofuoco possa assurgere ai livelli di Roberto Cuoghi - tanto per spendere un nome - solo grazie alla megasala invasa dalle sue opere: le dinamiche, lo sappiamo, sono altre e non vediamo come qualcuno possa realmente temere il potere destabilizzante di questa mostra.

Bonami non è Saatchi, non vende intere collezioni (le proprie), non fa il mercato.

Sicuramente certi protegées hanno beneficiato di una qualche sovraesposizione grazie a ITALICS, ma la retrospettiva, in quanto abbattimento e ricostruzione a mo’di Lego di pezzi di Storia, è stata segnata da un atteggiamento giocoso, scanzonato, provocatoriamente arbitrario (“Vedova non mi piace!”).

 

Forse è più stimolante ragionare sulle vie alternative, anche perché un evento come ITALICS è di magnitudo paragonabile solo (a mo’ di esempio)  a una tournée degli U2 degli Stones: lo status di Bonami e di Bono è ormai fissato, mentre quello che dicono o fanno è altamente opinabile.

Siamo convinti che François Pinault, Monique Veaute e Jean-Jacques Aillagon sappiano benissimo di ricoprire un ruolo preciso, definito nel fare cultura a Venezia, che non può prescindere dalla necessità di un successo assicurato, ottenibile solo attraverso casse di risonanza mediatica utilizzate per creare attesa e polemica e, quindi, afflusso di pubblico.

 

Molto meglio la gestione Pinault della paccottiglia per comitive che infestava le sale di Palazzo Grassi in precedenza, ma certo non aspettiamoci approcci troppo di ricerca o impostati sul basso profilo.

Il nome e la stessa natura fisico-architettonica della sede di San Samuele non possono prescindere da una grandeur divulgativa che è nel dna del Palazzo: lì si va anche “a prescindere” e, come abbiamo potuto verificare di persona, la presenza di giovani e studenti ancora fermi all’abc della materia, se non a digiuno completo, è stata notevole.

 

Meglio mandare a memoria il nome di Vedova che ignorarlo del tutto solo perché nella stessa saletta un suo dipinto minore è ereticamente accostato a un video trascurabile di Ugo Nespolo (e a Leoncillo, Zorio, Mollino, Mangano e Ferrari!!!), il quale però attira le attenzioni dei ragazzi.

Meglio vedere sparsi qua e là Chia e Cucchi, pur non collegandoli in alcun modo, che attraversare tre sale tutte di Transavanguardia compatta.

 

Come dire che le polemiche dei mesi scorsi hanno dimenticato questo centro, questa importanza divulgativa di Palazzo Grassi, chiedendo a una tale istituzione di snaturarsi. Piuttosto, c’è da augurarsi che l’apertura di Punta della Dogana stia all’edificio ristrutturato da Gae Aulenti –qui sì che ci sarebbe da esigere cambiamenti di rotta, iniziando dal terribile e già vetusto lucernaio- come la Turbine Hall sta alla Tate Modern.

 

La scelta di Ando è ancora in linea con la grandeur  cui s’accennava (veramente non si è pensato a Koolhaas, Herzog & De Meuron o Chpperfield?), ma, almeno, aspettiamo qualche giorno prima di giudicare.

 

ITALICS, 2

 

Tornando a ITALICS, alcuni passaggi espositivi vanno comunque sottolineati, pur dando per assodata la voluta casualità associativa di Grandi Nomi e Generazione X - i nati DOPO il ’68 - che spesso è banalmente attribuibile a dimensioni e forma delle sale (non ci si dica che il ragno blu peloso di Pascali dialoga con il marmo schiaccia-lumache di Francesco Reggiani! del quale, tra l’altro, si poteva scegliere di meglio).

Quel ragno, a nostro modesto parere, non può che chiedere pareti vuote tutto intorno e non ammassi da horror vacui.

Se si riserva al solito Vezzoli una sala di buia meditazione –le sale scure sono tutte (al di là della funzione definita dai video) per i preferiti di Bonami- è chiaro che poi si devono ammassare tizio e caio negli spazi residui…

 

Straordinario e attualissimo lo spazio semovente, ipnotico e multisensoriale di Gianni Colombo - il nostro top insieme a Ceroli accompagnato dalle lapidi straordinarie di Salvo e al Vedova di un “Plurimo” del 1970, grigliona metallica, “ante” polittiche in legno e colore - che da solo vale la visita.

Notevoli e allegramente vicini fra loro l’Uncini della sedia assonometricamente unita alla propria proiezione e l’inedita, sofferta Beecroft di esili ma drammatici esordi grafici, comunque materici (“oggi provo orrore al solo pensiero dell’esecuzione materiale di un’opera…”).

Paola Pivi vale più del duello perso con Gabriele Basilico - associazione gratuitissima - mentre Cattelan apre la mostra coi corpi distesi nella corte d’entrata, onore simile allo Stivale rovesciato di Luciano Fabro (“L’Italia d’oro”).

A parte Reggiani F. e Roccasalva (e Cuoghi) altri demiurgologhi che avrebbero anche potuto meritarsi una sala nera ma con opere in sequenza ben illuminate a spiegarne l’ardita filosofia, dei giovani fatichiamo a memorizzare qualcosa di notevole. Favelli, Ariatti, Manzelli…:  forse una scelta sbagliata di opere, ma la loro presenza è impalpabile.

Tra l’altro quella con Reggiani F. è una delle sale più politicizzate: un altro gioco degli opposti che si toccano?

 

La vera occasione persa da Bonami sta nel non aver saputo costruire nessi, pur dopo tanto sfrondare,: avremmo preferito non avere omaggi sciatti ad alcuni maestri, se solo il curatore fosse stato in grado (almeno per gli addetti ai lavori) di cucire i giovani e i vecchi usando un filo rosso tematico.

Che so… il ’68 come pretesto per discutere d’arte come atto politico versus successive e continue derive introspettive (ma non nella stessa sala!); l’uso del video nei caldi anni di lotta e quello odierno - ma allora dove sono i Zimmerfrei?

 

ITALICS e PADIGLIONE ITALIA 2009, Biennale d’Arte

 

Le dinamiche cui si accennava sopra determinano le vere coordinate entro le quali si organizzano eventi come ITALICS e la conferma ci viene offerta dal confronto tra gli artisti selezionati da Bonami e quelli scelti per la Biennale dai due Beatrice (Roccasalva e Pistoletto, infatti, li ha voluti Birnbaum): NESSUN NOME IN COMUNE, a parte l’inevitabile - per meriti propri - Roberto Cuoghi, che peraltro non faceva parte della prima selezione dei curatori di Padiglione Italia.

 

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