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venice 2009 the summer of art Avvicinamenti alla Biennale-4
i vedenti -2 Venezia, Palazzo Grassi 2008-2009 |
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FACCIAMO INSIEME UN GIRO-MONDO
Queste due giornate di preparazione alla cosiddetta vernice del 4 ci hanno già lanciati dentro alcune delle tematiche della Biennale Arte che mette al mondo mondi.
è stato, innanzitutto, emozionante riconoscere al volo il diaframma di perline rosse e bianche (sangue e malattia), opera di Felix Dominguez-Torres, che introdotti allo spazio espositivo di Pinault alla Punta della Dogana. Anche se non erano le caramelline di “Ross a Los Angeles” messe lì per partecipare alla consumazione di un corpo simbolico, rendevano bene l’idea di un’apertura perfetta, voluta da Vaute e Bonami.
"Camera da Letto", di Carsten Holler
Identiche sensazioni mentre stavamo sotto la pioggia di quadri 2 x 3 di Emilio Vedova, calati dall’alto e danzanti in mezzo al pubblico. Domande su domande, da parte di chi ballava con queste meravigliose opere (qui la dimensione conta, eccome!), grande desiderio di sapere, fame di diversità comunicativa.
Da domani vedremo se il fare mondi, o metterli al mondo, sarà stato declinato nell’unica maniera possibile: dar vita a cosmi di comunicazione che risveglino le coscienze e portino all’azione. Le stesse persone che si lamentano della pigrizia mentale delle nuove generazioni, spesso appoggiate a figure rassicuranti del passato, meglio se defunte e incontestabili (vedasi Boetti), dovrebbero ammettere che è molto meglio avere simili numi tutelari come punti partenza piuttosto che inventarsi pretenziose premesse teoriche quando manca il talento.
Opera di Miranda July
Boetti porta diretti al quotidiano, facendo del concettuale uno spazio pieno di esistenza vera, di ritmi umani, di relazione con l’Altro (“Alighiero & Boetti-I Gemelli”), del più debole, che magari ha un’ottica rovesciata rispetto alla nostra. “I Vedenti” (1967), cioè noi definiti dai non vedenti nelle loro discussioni, o l’attenzione per l’Afghanistan: tutte anticipazioni di quella “Public Art” e “Arte Relazionale” che forse troveremo in alcuni internazionali della Biennale, in Lara Favaretto, nelle aperture “amorose” di Miranda July, e che sono la traduzione più immediata dello slogan della mostra.
Stessa qualità d’arte sarà negli interventi di Massimo Bartolini e Tobias Rehberger, impegnati direttamente a progettare spazi funzionali del Padiglione delle Esposizioni.
"My Fourth Hommage" di Massimo Bartolini
Per non dire, poi, di Carsten Holler, il prestatore di opere ad amici e colleghi, tra cui quel Rirkritt Tiravanija, il Pietroiusti tailandese, che apre la propria abitazione per farne luogo/pub d’incontro. Dopo l’esperienza comunitaria di STAZIONE UTOPIA (Biennale 2003), questi artisti ribadiscono il concetto se mai non fosse chiaro: non siamo qui a piangerci addosso per un’epoca andata per sempre, gli anni Settanta, con le sue forme di condivisione a volte coatta e inevitabilmente di matrice ideologica.
Opera di Tobias Rehberger
Qui si tratta si far sopravvivere l’idea di comunità, di ridare senso allo stare insieme in città slabbrate in grumi di egotismo idiota internettiano, se dato in pasto agli idioti. Bella quindi l’idea di Birnbaum di affidare spazio “educational”, caffetteria e bookshop a Bartolini-Rehnberger-Tiravanija.
Opera di Tiravanija
Più difficile giudicare anticipatamente come potranno contribuire, su questa linea, artisti del Lontano Oriente, o indiani o australiani, perché sarà da verificare l’opera realizzata per la Biennale con il loro passato, anche se le stesse scelte geografiche sembrano preparare il terreno a buoni esiti.
Abbiamo molta fiducia, nonostante all’inizio (ottobre 2008) sembrasse “chiusa” la partecipazione di molti videoartisti, in Rosa Barba, Anna Parkina, la stessa July, Falke Pisano, Sara Ramo e Keren Cytter (Parkyna e Cytter hanno già collaborato nel progetto “CUT”, che giocava con l’accezione tecnica del termine in ambito cinematografico e traslato).
"Two" di Keren Cytter
La nostra personalissima speranza è di essere in grado di intervistarne un numero significativo.
Promettono bene, pur immersi nel loro “making (interior/ ritual) worlds”, anche Cuoghi e Roccasalva. Il primo estroverte sempre una visione che sembra a volte privatissima - come il farsi doppio “grasso” del padre - o piazza i suoi Pazuzu mesopotamici in punti cardinali di città come Torino, al punto da obbligare a confrontarci con la loro carica evocativo-misterica, che proprio nella città sabauda (Pazuzu era citato in “The Exorcist”) assume affascinanti valenze trascendentali. |
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