WHY DON’T YOU PLAY IN HELL?
di Sion Sono
Jun Kunimura, Shinichi Tsutsumi

 

ORIZZONTI

Giappone, 126'

 

Uno di quei casi che verrebbe da etichettare come “solo per i fan più sfegatati”. Il che non è necessariamente un giudizio negativo. Si tratta insomma in maniera inequivocabile e intenzionale di una sorta di pastiche di elementi che Sono Sion ha trattato in altri film, elementi retti per giunta, qualora l'antifona non fosse chiara, da un pretesto narrativo meta-cinematografico. Un gruppo di giovani cinefili viene coinvolto in una faida tra clan di yakuza: la resa dei conti fra questi ultimi sarà appunto innescata da un finto film che l'improbabile troupe viene ingaggiata a girare nel covo di uno dei gruppi nemici. Personaggio centrale, la figlia adolescente di uno dei boss, precoce star di uno spot televisivo di un dentifricio da bambina, poi allontanata dalla ribalta per fatti traumatici. Centrale perché nel rapporto tra lei e l'improbabile nerd che adesca strumentalmente per i propri comodi affiora con una certa evidenza l'elemento chiave dell'universo di Sono Sion (a partire dal suo film migliore, Strange Circus): l'ansia da castrazione, il vuoto dei genitali femminili e gli improbabili sforzi feticistici che l'uomo imbastisce per esorcizzarlo.
Se questa tematica nel film è poco più che marginale, quella che lo regge tutto intero non le è molto lontana: potremo chiamarla “voglia di cinema a tutti i costi, anche in palese assenza di materia prima”, ed è vicina all'ansia da castrazione appunto nelle sue velleità di sostituzione feticistica a fronte di un vuoto radicale.
E viene certamente voglia di cinema, nella prima ora del film, in preda a seri problemi di ritmo: Sono Sion, come sempre, limita le sue preoccupazioni a intelaiare una tessitura schiettamente romanzesca (davvero quasi come stesse direttamente scrivendo su carta) che poi gonfia con iniezioni di velocità il cui carattere fittizio salta davvero agli occhi.
Poi, al giro di boa, inizia l'Apocalisse, e proseguirà fino alla fine. Un bagno di sangue con pochi precedenti, dove tutti i nodi possibili vengono al pettine, fomentati dall'innocente e spietato sguardo della cinepresa. Ecco dunque che la mania quasi zulawskiana del cineasta giapponese di enfatizzare tutto, caricarlo, tenderlo sempre sopra le righe di una spanna e più, sbracando abbondantemente dalle parti del grottesco, si chiarisce: la voglia di cinema trova il cinema rappresentando la propria voglia stessa, impotente e feticistica ma reale, concretamente “lì” insieme all'abissale e violento vuoto del reale che l'ha provocata.Tutto per riprodurre l'intensità di una bambina che canta con uno spazzolino in mano, intensità che si può solo trovare, ma non ri-creare. E allora ci si butta in un gioioso, post-postmoderno circolo vizioso, in cui Sono Sion sguazza come un re.
27/30