Cos'ha
da fare oggigiorno un povero teologo, in un mondo così
sprovvisto di Sacro? Paul Schrader se l'è chiesto fin dal primo
film, e non ha mai avuto dubbi su dove cercare la risposta: nel
porno.
Ancora prima che uscisse, questo
The Canyons
tratto da Brett Easton Ellis imponeva all'attenzione mediatica
domande prettamente teologiche, del tipo “è più pornografico
impiegare una star del porno come James Deen in uno dei ruoli
principali, o un'ex star allo sbando come Lindsay Lohan, con la
stessa spietatezza amorosa di un George Cukor che usava negli
anni Settanta una Katharine Hepburn a fine carriera, vecchissima
e con il Parkinson?”. Ora che lo si può vedere,
The Canyons
conferma che solo del sesso degli angeli si può parlare, perché
è l'unica specie di sesso possibile.
Lo chiarisce la scena dell'orgia, intreccio assai meno di corpi
che di luci, e meno di luci che di fantasmi immateriali,
proiezioni, ossessioni di controllo.
Coppia giovane, bella e ricchissima, Tara e Christian
(produttore) incrociano Gina (collaboratrice di Christian) e
Ryan (aspirante attore). Ryan e Tara erano innamorati, ma il
basso tenore di vita di Ryan spinse Tara a fuggire, e a cercare
l'agio materiale. La cosa però fatica a restarsene relegata nel
passato: inizia così un infernale incrocio di pedinamenti,
sospetti, manipolazioni incrociate.
Ad incrociarsi, tuttavia, non sono mai corpi, ma specchi. Tutto
è valore raggrumato in feticcio visibile, superficie che
riflette lo sguardo: per questo Schrader “ruba” la sintassi dei
primi piani e degli sguardi in macchina della prima scena
(l'incontro tra i 4) nientemeno che a Ozu, maestro insuperabile
nel fingere di costruire una profondità per rimanere invece
all'infinito incrocio delle superfici. Niente corpi qui: il
corpo è solo l'illusione prodotta dall'incrociarsi degli
specchi. L'intero film, nel suo complesso, non è che la
paziente, diligente, millimetrica eliminazione di qualsiasi cosa
non si adatti al trionfo della superficie (Hollywood, appunto,
sgargiante set di The Canyons): nella fattispecie, l'amore.
L'”epurazione” va a segno, ma rimane scoperta innanzi alla beffa
suprema, parente stretta di quell'altra beffa per cui ogni
controllore/regista si scopre sempre e solo attore (l'unico vero
controllore/regista, per l'appunto, è quello lassù, quello che
non compare mai): il sintomo, il segnale di una profondità
(sessuale o amorosa che sia) che verrebbe sacrificata all'altare
della superficie, si scopre anch'esso superficie e nient'altro
che superficie. Sarebbe un martirio, se le frecce avessero un
corpo da trapassare. Ma non ce l'hanno: egli si manifesta solo
per spaeculum, et SINE aenigmate. 30/30 |