stray dogs
di Ming-liang Tsai
Lee Kang-sheng, Lu Yi-ching

 

VENEZIA 70
Taiwan, 138'

 

Dal 1992 in avanti, Tsai Ming-Liang porta avanti una sorta di ciclo (analogo a quello che Truffaut portò avanti con Antoine Doinel/Jean Pierre Léaud) in cui il suo attore feticcio Lee Kang-Sheng interpreta sempre lo stesso personaggio, che man mano cresce e si lascia alle spalle una fase vitale dietro l'altra. Poi, nel 2007, Lee Kang-Sheng porta in concorso a Venezia un lungometraggio che per molte ragioni potrebbe a buon diritto porsi quale chiusura ideale del ciclo inaugurato da Tsai. E da lì, il cineasta taiwanese sembra cambiare direzione: Visage (2009) e quest'ultimo Stray Dogs virano bruscamente verso la videoarte, scegliendo tessiture ora così astratte da potersi addirittura dire asfittiche.
Anche qui, come sempre, inquadrature fisse con prospettive sapientemente squilibrate da un ardito sistema di diagonali, con personaggi che perlopiù muti cercano di coprire con snervante lentezza, arrancando alla Sisifo, spazi che sembrano impossibili da esaurire per modeste che siano le loro dimensioni. Ma man mano che questi soliti “piani alla Tsai” si susseguono, l'enigma pare sempre più fitto. Chi è quella donna che in una casa diroccata piena di cani randagi si ferma a lungo a contemplare un murales? Qual'è la relazione col protagonista, che vive con i due figli in un container e tira avanti con lavoretti indegni? E perché a un certo punto lei, i figli, se li porta via?
Poi, di colpo, diventa tutto più chiaro. Il film esce dal suo sentiero narrativo e ne percorre uno radicalmente diverso. Un'altra donna. Un'altra casa.
Il murales però rimane, ed è da lì che prenderà forma il disegno compositivo dell'opera, un arabesco arzigogolato ma perfettamente congegnato, e visivamente magistrale (quella distribuzione delle luci nel buio... quei junk spaces ai margini della metropoli...). E ciò che risulta una volta uniti tutti i pezzi del puzzle non è un ghirigoro gratuito, ma un'ipotesi (valida) sulla differenza sessuale: la donna è colei che è a proprio agio nella simultaneità, mentre l'uomo è colui che è pienamente in balia del tempo, e dunque sbuffa e si affanna dentro le sue spire. Ed è per questo che l'uomo è così facilmente tentato da deliranti paranoie misogine - incluso il protagonista, che a un certo punto sventra un grosso cavolo a forma di donna (!). E a pensarci, quest'ipotesi di “gender” è della stessa foggia del cinema di Tsai, al contempo metafisico e assolutamente terra-terra. Più che un film è un'equazione raffinata tra componenti astratte, come lo può essere un'opera di videoarte – ma è anche un film dove si piscia un bel po'.
28/30