
Dal 1992 in avanti, Tsai Ming-Liang porta
avanti una sorta di ciclo (analogo a quello che Truffaut portò avanti con
Antoine Doinel/Jean Pierre Léaud) in cui il suo attore feticcio Lee
Kang-Sheng interpreta sempre lo stesso personaggio, che man mano cresce e si
lascia alle spalle una fase vitale dietro l'altra. Poi, nel 2007, Lee
Kang-Sheng porta in concorso a Venezia un lungometraggio che per molte
ragioni potrebbe a buon diritto porsi quale chiusura ideale del ciclo
inaugurato da Tsai. E da lì, il cineasta taiwanese sembra cambiare
direzione: Visage (2009) e
quest'ultimo Stray Dogs
virano bruscamente verso la videoarte, scegliendo tessiture ora così
astratte da potersi addirittura dire asfittiche.
Anche qui, come sempre, inquadrature fisse con prospettive sapientemente
squilibrate da un ardito sistema di diagonali, con personaggi che perlopiù
muti cercano di coprire con snervante lentezza, arrancando alla Sisifo,
spazi che sembrano impossibili da esaurire per modeste che siano le loro
dimensioni. Ma man mano che questi soliti “piani alla Tsai” si susseguono,
l'enigma pare sempre più fitto. Chi è quella donna che in una casa diroccata
piena di cani randagi si ferma a lungo a contemplare un murales? Qual'è la
relazione col protagonista, che vive con i due figli in un container e tira
avanti con lavoretti indegni? E perché a un certo punto lei, i figli, se li
porta via?
Poi, di colpo, diventa tutto più chiaro. Il film esce dal suo sentiero
narrativo e ne percorre uno radicalmente diverso. Un'altra donna. Un'altra
casa.
Il murales però rimane, ed è da lì che prenderà forma il disegno compositivo
dell'opera, un arabesco arzigogolato ma perfettamente congegnato, e
visivamente magistrale (quella distribuzione delle luci nel buio... quei
junk spaces ai margini della metropoli...). E ciò che risulta una volta
uniti tutti i pezzi del puzzle non è un ghirigoro gratuito, ma un'ipotesi
(valida) sulla differenza sessuale: la donna è colei che è a proprio agio
nella simultaneità, mentre l'uomo è colui che è pienamente in balia del
tempo, e dunque sbuffa e si affanna dentro le sue spire. Ed è per questo che
l'uomo è così facilmente tentato da deliranti paranoie misogine - incluso il
protagonista, che a un certo punto sventra un grosso cavolo a forma di donna
(!). E a pensarci, quest'ipotesi di “gender” è della stessa foggia del
cinema di Tsai, al contempo metafisico e assolutamente terra-terra. Più che
un film è un'equazione raffinata tra componenti astratte, come lo può essere
un'opera di videoarte – ma è anche un film dove si piscia un bel po'. 28/30 |