SIDDHARTH
di Richie Mehta
Rajesh Taliang, Tannishtha Chatterjee

 

GDA: Selezione Ufficiale
India, 96'

 

Letting go

Dopo l’ottimo AMAL del 2007, Richie Mehta,indo-canadese classe 1978 torna con una storia vera: la tragedia della scomparsa di un figlio persosi nelle maglie ora fitte ora slabbrate dell’ ignoranza sociale, intesa come incapacità di comprendere il mondo in cui si vive perché esclusi persino dal diritto all’informazione. Mahendra è così povero da non potersi permettere nemmeno un televisore o altro strumento in grado di raccontargli il mondo as we know it, così come va sviluppandosi attorno a noi. Privo delle coordinate necessarie a distinguere il bene dal male, manda il bambino a lavorare da un parente, sperando di risollevare le sorti della famiglia: la giovane moglie non lavora e lui fa il chain-wallah, l’aggiustatore di cerniere. Lo spunto non ha nulla di fictionale: un uomo fermò realmente Richie Mehta per strada, a New Delhi, un giorno del 2010, sperando di ricevere informazioni su “Dongri”. Quel luogo esisteva solo nella vulgata o nell’immaginazione del popolo e si diceva vi andassero a finire le innocenti vittime del lavoro minorile. A suo modo road-movie neorealista, SIDDHARTH - che è anche l’appropriato nome del ragazzino - resta sospeso tra una prima parte di “introduzione alla vita”, per così dire, durante la quale i genitori di S. devono imparare a comprendere la follia di un gesto compiuto per (inerte) disperazione e che ritenevano non contenesse alcun rischio per la sorte del figlio. Come detto, si può parlare di povertà di “dati”, di nozioni, d’informazioni se manca la fonte. Nell’ India del terzo millennio chi non appartiene alle caste alte, quindi non necessariamente gli “intoccabili”, è comunque escluso dal diritto alla conoscenza, al sapere e affronta la quotidianità con la tragica, pura ignoranza di un neonato. Non esistendo malizia, non la s’immagina negli altri. Il Male è una nozione, un dato che andrebbe prima esperito prima di essere catalogato, al fine di orientare i comportamenti rispetto al sociale. Mehta si fa da parte e lascia che la m.d.p. riprenda con movimenti fluidi l’esistenza elementare dei due adulti, abituati al baratto di cibo e vestiti (persino la cartamoneta è una nozione distante). Si vive in 15 metri quadrati, seduti a terra, con dignitosissimo fatalismo, ma isolati in un segmento di mondo dove l’ Iphone e googlemaps - che poi casualmente aiuteranno Mahendra nel suo tragitto stocastico - sono termini privi di senso, scollegati dalla fisicità di un oggetto o dalla descrivibilità di immagini bidimensionali.
Una volta in viaggio, il protagonista aiuta Mehta a muovere la macchina da presa con gesto para-documentaristico, immersa nella folla di Delhi, nel delirio di una massa fisica dove l’individuo ontologicamente non si dà, non è. SIDDHARTH è anche una pellicola sull’ elaborazione del lutto, sul lasciare andare, “letting go” (una persona, un ricordo,un legame), ovvero l’altra faccia del fatalismo di molti popoli orientali. Il fatalismo tout-court è quello a priori, prima della conoscenza, prima del sapere; l’ elaborazione del lutto è la comprensione di un errore compiuto e delle sue conseguenze su una persona cara, un parente, il tutto contestualizzato nell’ universo mondo fatto di complessità benigne e non
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