memphis
di Tim Sutton
Willis Earl Beal
 

Biennale College - Cinema
 Stati Uniti, 104'

 

Out of the blue and into the Blues

Tim Sutton, già presente a Cannes 2012, sfrutta al meglio l’occasione offertagli da College Cinema, riuscendo a produrre un’opera che non avrebbe sfigurato in Concorso. Questo significa che l’idea complessiva del “College” di Baratta non solo non ha nulla di velleitario o occasionale - come spesso accade nel nostro paese - ma si è già tradotta in un laboratorio di talenti parallelo ai festival principali della Fondazione, di cui  di fatto raddoppia la proposta culturale. In questo modo avremo sempre un’offerta multidisciplinare (annuale) in grado di accontentare chi segue con costanza la Biennale veneziana: lo hanno pienamente dimostrato anche i laboratori di Rigola - teatro - le serate musicali con gli allievi di Sciarrino e la riuscitissima, emozionante festa della danza condivisa di Virgilio Sieni.
MEMPHIS descrive la parabola discendente di un musicista afroamericano, Willis Earl Beal, incapace di uscire dal limbo creativo cui lo costringono le pressioni dei discografici, da una parte, e una vicenda sentimentale irrisolta, dall’altra. La scelta di un non-tempo entro il quale andarsi a rifugiare, sospendendo i ritmi della quotidianità e del lavoro artistico, permette a Beal e Sutton di dar vita a una sospensione del flusso narrativo, che non ha più un ritmo, esattamente come la musica del soulman. La teoria infinita di sollecitazioni cui il protagonista è sottoposto - ci si mettono anche colleghi musicisti e amici, inquadrati in un sottotesto documentaristico fatto di facce cassavetesiane (dove la frenesia jazz del regista greco diventa cupa fissità blues e soul) - portano Beal verso una blanda disperazione, dalla quale è possibile uscire solo con una canzone nuova, una frase musicale tirata fuori in auto piuttosto che al pianoforte o un riff azzeccato. MEMPHIS è un film sui misteri dell’ispirazione creativa: epifania improvvisa, passaggio onirico di una Gradiva in forma di note intrecciate, piuttosto che allineamento coatto di giorni lavorativi.
Ogni tanto la realtà misera fa capolino, nelle richieste della compagna di Beal, stanca di una presenza-assenza difficile da gestire, o nelle lamentazioni dell’amico handicappato, un po’ handler, un po’ pusher, un po’ anima nera del protagonista e, in definitiva, rappresentazione tridimensionale delle contraddizioni della sistema produttivo discografico contemporaneo in ambito black music. Si fosse scelto di affrontare la stessa tematica in territori hip-hop, ne sarebbe risultato un lavoro assolutamente esplosivo. Non è un caso che manchino assolutamente, al riguardo, testi filmici in grado di raccontare le verità nascoste di quel sistema.
Beal sembra aspettare la fine, l’esecuzione di una condanna, inevitabile dopo mesi di ispirazione assente, trascorsi a tentare di schiarirsi la voce arrochita da alcool e fumo o a uscire dall’empasse fisica di una città spazialmente asfittica, lontana anni luce dalla frenesia carnascialesca o dalla sofferenza urlata di New Orleans. Sutton è bravissimo nel descrivere le ampie strade, percorse a velocità zero e con la bottiglia di Ballantine in mano, quasi fossero hangar grigi, infiniti ma allo stesso chiusi, senza via di scampo. Gli incroci sono tutti uguali e ogni volta puoi incrociare qualcuno pronto a farti a pezzi per non aver rispettato le scadenze. Non importa che i sessionmen sembrino tutti malconci o addirittura con un piede nella fossa (straordinario il vecchio chitarrista mezzo intubato): nel sorriso scuro di ognuno si nasconde una minaccia. Beal risorgerà solo quando il demone creativo, riconosciuto e celebrato nel giubilo collettivo, tornerà a possederlo
.30/30