
Out of the blue and into the Blues
Tim Sutton, già presente a Cannes 2012, sfrutta al meglio
l’occasione offertagli da College Cinema, riuscendo a produrre
un’opera che non avrebbe sfigurato in Concorso. Questo significa che l’idea
complessiva del “College” di Baratta non solo non ha nulla di velleitario o
occasionale
-
come spesso accade nel nostro paese
- ma si è già tradotta in un laboratorio di talenti parallelo ai festival
principali della Fondazione, di cui di fatto raddoppia la proposta
culturale.
In questo modo avremo sempre un’offerta multidisciplinare (annuale) in grado
di accontentare chi segue con costanza la Biennale veneziana: lo hanno
pienamente dimostrato anche i laboratori di Rigola
-
teatro
- le serate musicali con gli allievi di Sciarrino e la riuscitissima,
emozionante festa della danza condivisa di Virgilio Sieni.
MEMPHIS
descrive la parabola discendente di un musicista afroamericano, Willis Earl
Beal, incapace di uscire dal limbo creativo cui lo costringono le pressioni
dei discografici, da una parte, e una vicenda sentimentale irrisolta,
dall’altra. La scelta di un non-tempo entro il quale andarsi a rifugiare,
sospendendo i ritmi della quotidianità e del lavoro artistico, permette a
Beal e Sutton di dar vita a una sospensione del flusso narrativo, che
non ha più un ritmo, esattamente come la musica del soulman.
La teoria infinita di sollecitazioni cui il protagonista è sottoposto
-
ci si mettono anche colleghi musicisti e amici, inquadrati in un sottotesto
documentaristico fatto di facce cassavetesiane (dove la frenesia jazz del
regista greco diventa cupa fissità blues e soul)
- portano Beal verso una blanda disperazione, dalla quale è possibile uscire
solo con una canzone nuova, una frase musicale tirata fuori in auto
piuttosto che al pianoforte o un riff azzeccato. MEMPHIS è un film sui
misteri dell’ispirazione creativa: epifania improvvisa, passaggio onirico di
una Gradiva in forma di note intrecciate, piuttosto che allineamento coatto
di giorni lavorativi.
Ogni tanto la realtà misera fa capolino, nelle richieste della compagna di
Beal, stanca di una presenza-assenza difficile da gestire, o nelle
lamentazioni dell’amico handicappato, un po’ handler, un po’ pusher, un po’
anima nera del protagonista e, in definitiva, rappresentazione
tridimensionale delle contraddizioni della sistema produttivo discografico
contemporaneo in ambito black music. Si fosse scelto di affrontare la stessa
tematica in territori hip-hop, ne sarebbe risultato un lavoro assolutamente
esplosivo. Non è un caso che manchino assolutamente, al riguardo, testi
filmici in grado di raccontare le verità nascoste di quel sistema.
Beal sembra aspettare la fine, l’esecuzione di una condanna, inevitabile
dopo mesi di ispirazione assente, trascorsi a tentare di schiarirsi la voce
arrochita da alcool e fumo o a uscire dall’empasse fisica di una città
spazialmente asfittica, lontana anni luce dalla frenesia carnascialesca o
dalla sofferenza urlata di New Orleans. Sutton è bravissimo nel descrivere
le ampie strade, percorse a velocità zero e con la bottiglia di Ballantine
in mano, quasi fossero hangar grigi, infiniti ma allo stesso chiusi, senza
via di scampo. Gli incroci sono tutti uguali e ogni volta puoi incrociare
qualcuno pronto a farti a pezzi per non aver rispettato le scadenze. Non
importa che i sessionmen sembrino tutti malconci o addirittura con un piede
nella fossa (straordinario il vecchio chitarrista mezzo intubato): nel
sorriso scuro di ognuno si nasconde una minaccia. Beal risorgerà solo quando
il demone creativo, riconosciuto e celebrato nel giubilo collettivo, tornerà
a possederlo.30/30
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