LA JALOUSIE
di Philippe Garrel
Louis Garrel, Anna Mouglalis

 

VENEZIA 70
Francia, 77'

 

Cineasta da sempre sottilmente autobiografico, Philippe Garrel trova ora una variazione particolarmente perversa del suo schema usuale. Suo figlio Louis interpreta un personaggio ispirato dal nonno (il padre di Philippe), un attore giovane e squattrinato che perde l'instabile convivente dopo aver abbandonato moglie e figlia. È in quest'ultima che appunto dice di identificarsi il regista; la gelosia del titolo è infatti quella che lei istilla nella madre nei riguardi dell'amante del padre, con la quale si trova benissimo. Questo asse tra figlio e nonno sembra racchiudere piuttosto bene l'assunto di LA JALOUSIE, il quale ruota appunto intorno all'assenza del padre. Non c'è trauma che non venga riassorbito: la perdita dell'amante su cui si è scommessa l'intera vita, il tentato suicidio che ne consegue, tutto passa in modo bastantemente liscio. Ma quando Louis riceve la visita di una donna che gli parla di suo padre, non rimane che immobilizzarsi lividamente e lasciare che una dissolvenza a nero invada lo schermo. E il suo reiterare l'incapacità di farsi e tenersi una famiglia lo fa passare direttamente da figlio a nonno saltando la paternità - la figlia irride i suoi tentativi di autorità, e con lei Louis fa molto più il nonno che il padre. È ai consigli degli anziani, Seneca addirittura, che si affida.
Padri non lo si diventa mai - ergo, la donna scappa, costitutivamente. “Scappa” non solo perché lo lascia, ma perché è regolata a una velocità diversa da quella di lui. Insicurezza e sicurezza, attaccamento e volatilità, si alternano in lei con ritmi impossibili da fronteggiare per il monolitico Louis, che si illude di vivere un amore totale solo perché non vede quello che gli sta davanti agli occhi. Non gli rimane che accettare che la velocità del femminile non è (più) cosa sua: anche per questo, LA JALOUSIE appare la certificazione che l'essere condannati a un'eterna giovinezza vuol dire essere già/sempre entrati nella vecchiaia. Autodistruggersi non ha (più) senso: l'ultima inquadratura, con Louis che semplicemente spegne la luce prima di dormire, è la riconversione del suicidio di qualche scena prima in sospirata riappropriazione della discontinuità - sì, proprio quella discontinuità che fino a poco prima era stato tremendo appannaggio del femminile.
E la discontinuità è il plateale segno de LA JALOUSIE, film scombiccherato e sfrangiato quant'altri mai. Scene che cominciano in medias res e che finiscono in maniera brutale, abrupta (finisce in questo modo, del resto, il film stesso). “Tizzoni” emotivi sottratti a forza allo sviluppo e presentati nell'apparire gloriosamente grezzo del contrastato, ruvido bianco-e-nero garreliano. Scene che si accumulano scartando qualsiasi organicità; l'addizione di un frammento dopo l'altro con tanti saluti alla ricucitura narrativa dell'insieme - ma che insieme dovrebbe esserci? C'è solo il presente, nella sua durezza.
Appropriarsi del discontinuo, certo. Solo lì può trovarsi la salvezza. Ma in questa serenità finalmente raggiunta, quel primo piano dolente prima della dissolvenza in nero, macerantesi nell'assenza del padre, non smette di posare la sua ombra.
28/30