
Antonio Pane, 48 anni, fa tutti i mestieri e
nessuno. È un rimpiazzo: quando qualcuno manca dal posto di lavoro, lui
prende temporaneamente, molto temporaneamente, il suo posto. È abbastanza
felice, nonostante la totale assenza di prospettive, ma lo è perché ha una
speranza: il figlio, che suona il sax.
Siamo dunque nel cuore della contemporaneità italiana: il precariato totale,
l'assenza di futuro, ma soprattutto, e più precisamente, una cosa che Amelio
vede e restituisce molto bene: la nostalgia della forma, il rimpianto per un
tempo in cui saper fare il proprio mestiere aveva un senso.
In effetti, è dentro una strana, calcolata assenza di forma che si muove
Amelio. Egli segue in maniera volutamente, studiatamente molle e labile e
incerta personaggi radicalmente privi ormai di una vera relazione con
l'ambiente tutto intorno. Galleggiano, e la cinepresa con loro. Se non c'è
relazione con il mondo circostante, non c'è la possibilità di trasformarlo
attraverso il lavoro: è precisamente il caso di Antonio, mostrato scena dopo
scena e lavoretto dopo lavoretto, una specie di bolla che dal futuro non si
aspetta niente, fondamentalmente priva di volontà. Non un uomo, ma una sorta
di illusione ottica che appare a mo' di sottoprodotto delle circostanze
lavorative su cui esso inciampa e a cui è subordinato. Può un film reggersi
solo su questo? Se è un film italiano, certamente no. E come questo nuovo
proletariato di oggi non riesce a organizzarsi sindacalmente, così l'idea
stilistico-formale-sociologica alla base di questo film, con questo suo
protagonista vuoto ma scompostamente espressivo, non può reggersi da sola
(in un film italiano). E allora eccola, l'onnipresente Sceneggiatura Di
Piombo del cinema italiano, pronta a linearizzare e ad appiattire qualsiasi
cosa in un racconto scritto secondo i crismi.
Ecco, insomma, il subplot (quasi) amoroso con una precaria fatta poi
suicidare dopo circa mezz'ora perché alla sceneggiatura non serviva più. E
non è nemmeno l'unico caso del genere, ne
L'intrepido, film in cui la
necessità di caratterizzare un personaggio che in realtà sarebbe stato
accettabilissimo anche solo in forma “gassosa” e vuota, fa sì che ci si
leghi mani e piedi a una scrittura pesante, convenzionale, poco inventiva,
accademica. Ed è un peccato, perché così rischiano di perdersi le non poche
cose buone, come l'interpretazione di Antonio Albanese, o il notevole
ritratto di Milano realizzato dal grande Luca Bigazzi. Soprattutto, rischia
di eclissarsi l'intenso rapporto tra padre e figlio, epitome perfetta
dell'impasse in cui parrebbe essere finita la “soggettività italiana” di
oggi: il figlio si rivela padre, il padre rimane eternamente figlio. Questo
“autopartorirsi” che oggi è una condanna, un tempo garantiva la possibilità
di un'autonomia: riusciremo ancora a trovare la forma da dentro la palude
dell'informe? 26/30 |