l'intrepido
di Gianni Amelio
Antonio Albanese, Livia Rossi

 

VENEZIA 70
Italia, 104'

 

Antonio Pane, 48 anni, fa tutti i mestieri e nessuno. È un rimpiazzo: quando qualcuno manca dal posto di lavoro, lui prende temporaneamente, molto temporaneamente, il suo posto. È abbastanza felice, nonostante la totale assenza di prospettive, ma lo è perché ha una speranza: il figlio, che suona il sax.
Siamo dunque nel cuore della contemporaneità italiana: il precariato totale, l'assenza di futuro, ma soprattutto, e più precisamente, una cosa che Amelio vede e restituisce molto bene: la nostalgia della forma, il rimpianto per un tempo in cui saper fare il proprio mestiere aveva un senso.
In effetti, è dentro una strana, calcolata assenza di forma che si muove Amelio. Egli segue in maniera volutamente, studiatamente molle e labile e incerta personaggi radicalmente privi ormai di una vera relazione con l'ambiente tutto intorno. Galleggiano, e la cinepresa con loro. Se non c'è relazione con il mondo circostante, non c'è la possibilità di trasformarlo attraverso il lavoro: è precisamente il caso di Antonio, mostrato scena dopo scena e lavoretto dopo lavoretto, una specie di bolla che dal futuro non si aspetta niente, fondamentalmente priva di volontà. Non un uomo, ma una sorta di illusione ottica che appare a mo' di sottoprodotto delle circostanze lavorative su cui esso inciampa e a cui è subordinato. Può un film reggersi solo su questo? Se è un film italiano, certamente no. E come questo nuovo proletariato di oggi non riesce a organizzarsi sindacalmente, così l'idea stilistico-formale-sociologica alla base di questo film, con questo suo protagonista vuoto ma scompostamente espressivo, non può reggersi da sola (in un film italiano). E allora eccola, l'onnipresente Sceneggiatura Di Piombo del cinema italiano, pronta a linearizzare e ad appiattire qualsiasi cosa in un racconto scritto secondo i crismi.
Ecco, insomma, il subplot (quasi) amoroso con una precaria fatta poi suicidare dopo circa mezz'ora perché alla sceneggiatura non serviva più. E non è nemmeno l'unico caso del genere, ne L'intrepido, film in cui la necessità di caratterizzare un personaggio che in realtà sarebbe stato accettabilissimo anche solo in forma “gassosa” e vuota, fa sì che ci si leghi mani e piedi a una scrittura pesante, convenzionale, poco inventiva, accademica. Ed è un peccato, perché così rischiano di perdersi le non poche cose buone, come l'interpretazione di Antonio Albanese, o il notevole ritratto di Milano realizzato dal grande Luca Bigazzi. Soprattutto, rischia di eclissarsi l'intenso rapporto tra padre e figlio, epitome perfetta dell'impasse in cui parrebbe essere finita la “soggettività italiana” di oggi: il figlio si rivela padre, il padre rimane eternamente figlio. Questo “autopartorirsi” che oggi è una condanna, un tempo garantiva la possibilità di un'autonomia: riusciremo ancora a trovare la forma da dentro la palude dell'informe?
26/30