Un
esercizio iperminimalista costruito attorno a un volutamente
banale ed elementare episodio di violenza domestica. Lui,
poliziotto, passa dalle tenerezze alle botte nei confronti della
giovane moglie, perché la sente sempre più sfuggire al suo
controllo – anche per via della sempre più stretta complicità
tra lei e la figlioletta.
Un'opera in 59 capitoli, brevi o brevissimi, solo parzialmente
incentrati sulla famiglia, e che spesso e volentieri si
soffermano su dettagli della vita animale o vegetale, fuori. Una
volpe, uno scoiattolo, alcune piantine fatte crescere dalla
piccola. Ognuno di questi frammenti tenta di acciuffare con
precisione microscopica, lenta, meticolosa, il dischiudersi
della differenza. Man mano che i capitoli si susseguono, viene
in mente un film pur enormemente diverso (e interiore) come
Antichrist: l'ultima inquadratura è infatti, come nel prologo
del film di Von Trier, lo sguardo in primissimo piano della
bambina, elemento perturbatore del gioco di equilibri (a suo
modo perfetto) della coppia.
La scena primaria, insomma. E qui sta il problema. Dopo due ore
e passa di dispiego sinfonico, gloriosamente astratto, di
schegge di Essere che parrebbero legarsi tra loro solo
attraverso connessioni misteriose e enigmatiche, man mano che il
disegno si chiarisce si palesa pure che al centro di tutto c'è,
in maniera un po' scontata, la differenza sessuale. Da un lato
l'uomo che invecchia da solo, dall'altro la donna aggrappata
alla maternità. E la bambina, appunto, a fare da elemento
divaricatore – con il mondo, tutt'intorno, che manifesta un
dischiudersi analogamente dolce e terribile. E c'è dunque il
rischio che si possa pensare “tutto qui?”, a dispetto
dell'ambizione cosmica (peraltro degnamente sostenuta) che
sembra gonfiarsi capitolo dopo capitolo.26/30 |