Die Frau des Polizisten
di Philip Gröning
Alexandra Finder, David Zimmerschied

 

VENEZIA 70
Germania, 175'

 

Un esercizio iperminimalista costruito attorno a un volutamente banale ed elementare episodio di violenza domestica. Lui, poliziotto, passa dalle tenerezze alle botte nei confronti della giovane moglie, perché la sente sempre più sfuggire al suo controllo – anche per via della sempre più stretta complicità tra lei e la figlioletta.
Un'opera in 59 capitoli, brevi o brevissimi, solo parzialmente incentrati sulla famiglia, e che spesso e volentieri si soffermano su dettagli della vita animale o vegetale, fuori. Una volpe, uno scoiattolo, alcune piantine fatte crescere dalla piccola. Ognuno di questi frammenti tenta di acciuffare con precisione microscopica, lenta, meticolosa, il dischiudersi della differenza. Man mano che i capitoli si susseguono, viene in mente un film pur enormemente diverso (e interiore) come Antichrist: l'ultima inquadratura è infatti, come nel prologo del film di Von Trier, lo sguardo in primissimo piano della bambina, elemento perturbatore del gioco di equilibri (a suo modo perfetto) della coppia.
La scena primaria, insomma. E qui sta il problema. Dopo due ore e passa di dispiego sinfonico, gloriosamente astratto, di schegge di Essere che parrebbero legarsi tra loro solo attraverso connessioni misteriose e enigmatiche, man mano che il disegno si chiarisce si palesa pure che al centro di tutto c'è, in maniera un po' scontata, la differenza sessuale. Da un lato l'uomo che invecchia da solo, dall'altro la donna aggrappata alla maternità. E la bambina, appunto, a fare da elemento divaricatore – con il mondo, tutt'intorno, che manifesta un dischiudersi analogamente dolce e terribile. E c'è dunque il rischio che si possa pensare “tutto qui?”, a dispetto dell'ambizione cosmica (peraltro degnamente sostenuta) che sembra gonfiarsi capitolo dopo capitolo.
26/30