Home from Home - Chronicle of a Vision
di Edgar Reitz
Jan Dieter Schneider, Antonia Bill

 

FUORI CONCORSO
Germania, 230'

 

Decine e decine di ore, tre cicli, una lunghissima saga familiare che segue i Simon per i pendii diversamente scoscesi della storia personale e di quella con la “S” maiuscola: nel 2004, la parola fine sembrava già scritta per Heimat. E invece no: Reitz ha in seguito concepito e realizzato alcune “costole” del progetto, come ad esempio, nel 2006, Heimat – Fragmente, sorta di monologo interiore lungo le spire del tempo che ricollocava e remixava alcune delle scene tagliate dei tre cicli originari.
E ora arriva questo prequel, che risale l'albero genealogico dei Simon fino a metà del diciannovesimo secolo, e segue il giovane Jakob, pecora nera di quella famiglia di fabbri, appassionato di lettura, sognatore di orizzonti lontani in un Hunsrueck all'epoca già pieno di carovane di emigranti. Affascinato dagli indiani d'America, post-romantico fino ad essere strutturalista ante-litteram, Jakob è in questo fondamentalmente lucasiano, proprio nel senso di George Lucas - un altro che, come Reitz, ha deciso di chiudere il cerchio della propria trilogia meta-mitologica tornando all'origine. “Gli indiani hanno una parola che significa 'ritornare alla fine del tempo'”, scrive Jakob nel diario la cui visualizzazione costituirà le due parti di quest'opera.
E all'origine, ovvio fulcro del pensiero mitico, Jakob e Reitz (come Lucas) trovano l'intreccio inestricabile di sincronia e diacronia. Jakob e il fratello (la sua anima “pragmatica”), infatti, in quel loro mutare l'uno nell'altro (le aspirazioni di Jakob è il fratello a realizzarle e viceversa) che innerva l'intero racconto, restituiscono l'infinito rimandarsi reciproco tra prospettiva sincronica e diacronica, tra fuga in avanti del tempo e sentore che il tempo, invece, rimane eternamente lì dov'è.
Ogni scena, e soprattutto la “voce” affabulatoria che la fa vivere (la macchina da presa, narratore impassibile e impersonale che si accalora “inclinandosi” stilisticamente), vibra della tensione tra far andar avanti il racconto e soffermarsi su una messe inesauribile di elementi che gli stanno a fianco, orizzontalmente. Tensione che un tempo (gli anni ottanta che videro esordire la saga) poteva dirsi tranquillamente “seriale”, e che adesso viene condotta alla sua origine con straordinario gesto meta-mitologico: quel punto dove cominciano tutte le storie, ma potrebbero anche non cominciare. Ogni inizio, ogni palingenesi storica, è eiaculazione precoce (il montaggio parallelo tra l'ingravidamento e la sommossa popolare), e ogni fine, semplicemente, non finisce mai (la madre dei due fratelli sembra sempre sul punto di trapassare: non lo fa mai, e quando lo fa, lo fa in un battibaleno, fuoricampo).
Ha ragione Reitz: che bisogno c'è di avventurarsi nello strutturalismo, quando abbiamo (hanno) avuto i Romantici?
30/30