Decine
e decine di ore, tre cicli, una lunghissima saga familiare che segue i Simon
per i pendii diversamente scoscesi della storia personale e di quella con la
“S” maiuscola: nel 2004, la parola fine sembrava già scritta per Heimat. E
invece no: Reitz ha in seguito concepito e realizzato alcune “costole” del
progetto, come ad esempio, nel 2006, Heimat – Fragmente, sorta di monologo
interiore lungo le spire del tempo che ricollocava e remixava alcune delle
scene tagliate dei tre cicli originari.
E ora arriva questo prequel, che risale l'albero genealogico dei Simon fino
a metà del diciannovesimo secolo, e segue il giovane Jakob, pecora nera di
quella famiglia di fabbri, appassionato di lettura, sognatore di orizzonti
lontani in un Hunsrueck all'epoca già pieno di carovane di emigranti.
Affascinato dagli indiani d'America, post-romantico fino ad essere
strutturalista ante-litteram, Jakob è in questo fondamentalmente lucasiano,
proprio nel senso di George Lucas - un altro che, come Reitz, ha deciso di
chiudere il cerchio della propria trilogia meta-mitologica tornando
all'origine. “Gli indiani hanno una parola che significa 'ritornare alla
fine del tempo'”, scrive Jakob nel diario la cui visualizzazione costituirà
le due parti di quest'opera.
E all'origine, ovvio fulcro del pensiero mitico, Jakob e Reitz (come Lucas)
trovano l'intreccio inestricabile di sincronia e diacronia. Jakob e il
fratello (la sua anima “pragmatica”), infatti, in quel loro mutare l'uno
nell'altro (le aspirazioni di Jakob è il fratello a realizzarle e viceversa)
che innerva l'intero racconto, restituiscono l'infinito rimandarsi reciproco
tra prospettiva sincronica e diacronica, tra fuga in avanti del tempo e
sentore che il tempo, invece, rimane eternamente lì dov'è.
Ogni scena, e soprattutto la “voce” affabulatoria che la fa vivere (la
macchina da presa, narratore impassibile e impersonale che si accalora
“inclinandosi” stilisticamente), vibra della tensione tra far andar avanti
il racconto e soffermarsi su una messe inesauribile di elementi che gli
stanno a fianco, orizzontalmente. Tensione che un tempo (gli anni ottanta
che videro esordire la saga) poteva dirsi tranquillamente “seriale”, e che
adesso viene condotta alla sua origine con straordinario gesto
meta-mitologico: quel punto dove cominciano tutte le storie, ma potrebbero
anche non cominciare. Ogni inizio, ogni palingenesi storica, è eiaculazione
precoce (il montaggio parallelo tra l'ingravidamento e la sommossa
popolare), e ogni fine, semplicemente, non finisce mai (la madre dei due
fratelli sembra sempre sul punto di trapassare: non lo fa mai, e quando lo
fa, lo fa in un battibaleno, fuoricampo).
Ha ragione Reitz: che bisogno c'è di avventurarsi nello strutturalismo,
quando abbiamo (hanno) avuto i Romantici?30/30 |