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beThlehem
GDA: Selezione
Ufficiale |
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Bethlehem è forse il film più sottovalutato di questa 70° edizione della Mostra del Cinema. Yuval Adler,pur fissando il punto di partenza narrativo nell'amicizia tra un ragazzino palestinese,Sanfur, e un soldato israeliano,Zari,riesce a stratificare complessità psicologica e scene d'azione,evitando di ridurre un materiale così incendiario a una schematica rappresentazione di singoli personaggi dialoganti ma contrapposti. Sanfur,un po' come i territori occupati della Cisgiordania,dove vive,si ritrova preso in mezzo ai due fuochi rappresentati dalla figura dell' amico adulto -di cui è l'ingenuo informatore- e del fratello di sangue,Ibrahim,estremista e assolutamente non incline alla trattativa.Quest'ultimo è visto con sospetto dalla guerriglia organizzata regolare,perché agisce in assoluta indipendenza e secondo tempistiche e modalità non concordate con i riconosciuti capi delle milizie palestinesi: è quindi il villain del film,sebbene coerente sino alle estreme conseguenze,che gli si prospettano quando scopre l'attività segreta del fratello minore. Il pubblico del film è a sua volta irresolubilmente teso tra adesione incondizionata alle scelte di una regia sorprendentemente agile e sicura,per un esordiente,e dilemma etico quando si tratta di giudicare Sanfur. Anche a fine proiezione le posizioni divergono e l'atmosfera rimane tesa:il centro dell'argomentare è la doppia opzione che Sanfur si trova a dover affrontare una volta smascherato da Ibrahim: sacrificare la propria vita per salvare Zari o quella del soldato per tornare a far parte delle brigate in lotta per la difesa dei Territori. Adler,in realtà,non cede di un millimetro sul piano della rappresentazione di contrapposizioni intese come intrinseche alla natura di una cultura fatta di zero dialogo.Inutile credere che Sanfur possa addirittura fuggire in territorio israeliano insieme a Zari,come prospettato poco prima del tragico finale,votandosi a una vita di disonore e tradimento radicali,a prescindere dalla fatwa annunciatagli da Ibrahim.Lo stesso Zari,in un'ora e mezza,non fraternizza mai completamente con lo strumento di delazione che per lui Sanfur rappresenta.Siamo d'altronde in territori geografici dove la materia del contendere risale alle origini del monoteismo e alla radicalità di scelte personali e razziali che esso presupppone. Il Testo principale, cioè lo scontro tra due dei tre monoteismi in questione,non è mai chiamato in causa, perché inteso come intoccabile/inattaccabile punto di partenza di culture millenarie:il dialogo può dasi solo come esito di trattative parzialissime e dovute ad esigenze di contingentissima convivenza, sino al prossimo attentato da una o dall'altra parte.Filmicamente,come anticipato,Adler è magistrale nel chiarire subito che siamo dentro un thriller diurno -questo sì che meriterebbe un remake!- aperto e chiuso da una tragica morte e dallo scorrere di sangue rituale. E' insensato commentare "il ragazzino doveva andarsene a Tel Aviv":non è questo il mondo in cui viviamo.Alle varie fatwa corrispondono,specularmente,i rabbi che s'incaricano di siglare il destino dei vari Rabin passati e futuri.Nuovi utopici Camp David non si daranno,per così dire,ontologicamente.La grande Quaestio risale alla fonte, al nodo cruciale del dibattere,al 1948 e a quello che seguì nel '67 e nel '73. Il regista è uno specchio a due facce,davanti e dietro la m.d.p.,preso solo dal desiderio di essere anche lui documento mobile e oggettivo di uno status quo non solo bellico,bensì culturale ed etico. Cinematograficamente inattaccabile,BETHLEHEM dimostra semmai che la conciliazione si può attuare nell'arte e nella collaborazione tra lo stesso Adler,israeliano, e un giornalista arabo,Ali Wakhed,che contribuisce alla sceneggiatura con l'incontestabile oggettività dei suoi report.30/Lode |