
Il Grande Fratello va all’università
In uno strepitoso film in cui Wiseman
va fuori campo e si allontana a distanza infinita dalla macchina da presa,
lasciata sola davanti al crescere del tempo, si concentra la materia densa
di un documentario dedicato a ciò che rimane, negli anni Dieci, dello
spirito dei Sixties e Seventies. I college americani hanno nel frattempo
raffreddato la materia della protesta e congelato i ruoli delle parti in
causa: i giovani arrabbiati hanno pre-definito un limite alle loro azioni e
si ritirano in buon ordine appena realizzano di creare ostacolo allo studio
dei colleghi raccolti nella biblioteca dove fanno assemblea. I docenti e lo
staff, civilissimi e inamovibili soldatini del sistema, per quanto
ragionevolmente flessibili sugli aspetti pratici meno importanti della
vicenda in divenire (unico residuo della tradizione tollerante di Berkeley),
non hanno mai uno scatto d’ira e sembrano prevedere l’esito degli eventi.
Non è una scelta casuale, quindi, quella di azzerare l’estetica da handycam
e di evitare un’ esagitazione stilistica prevedibile e scontata per
un documentario politico. Sembra quasi di assistere a un “Grande
Fratello all’ Università”, laconico e dotato di pathos scritto in sede
di sceneggiatura. Trattandosi di Realtà, però, deduciamo che tale è lo
status quo in una delle più importanti istituzioni scolastiche mondiali, che
ha sì sdoganato i diritti civili delle minoranze, ma adesso si riduce ad
assorbire come una spugna, o un blob, ogni eccesso, ogni fuoriuscita dalla
norma(lità). Le innumerevoli telefonate dello staff che coordina e riscrive,
con piccole o grandi bugie, il racconto della protesta, sembrano opera di
uno screenwriter robotico, tanto si assomigliano e sembrano coordinate da un
unico cervello omni-sovrintendente.
è giusto che
Wiseman si azzeri: c’è chi ha già scritto i fatti, la fine dei quali è nota,
nulla evolve e una m.d.p. fissa è scelta coerente e azzeccata.
Molto più interessanti le riunioni a porte chiuse sulla gestione del budget
universitario o, all’opposto, i talks sull’ emarginazione razziale
strisciante tra gli studenti e gli alumni in visita (un tic
tipicamente americano). Sono i luoghi filmici della cattiveria, del cinico
realismo del corpo docente, che gelidamente rileva l’efficienza o
l’incapacità di un collega, eventualmente rimosso dalla gestione dei fondi
per la ricerca, o decide i tagli alla stessa. Sono anche i luoghi dell’
anodina analisi sociologica sui criteri di formazione dei gruppi di studio
studenteschi, dove il colore della pelle sembra incredibilmente e
imprevedibilmente tornare a orientare le scelte di bianchi/ neri/ gialli. Il
black è ancora quello con minor voglia d’impegnarsi e i gialli
cominciano a ritagliarsi lo spazio per una mini-elite ben definita.
Il regista è forse interdetto come lo siamo noi e decide di muovere appena
la m.d.p. in brevissimi segmenti di umanità condivisa: i dialoghi tra una
ricercatrice appassionata impegnata al microscopio e la professoressa
empaticamente partecipe o le lectiones tenute da figure esterne, come
quando un ex-membro dello staff di Clinton arringa la folla composta con
aneddoti e dettagli forniti ad uso dei futuri congress-men
demorepublicans.
Questo è, peraltro, lo stile consolidato di Wiseman, che ci ha fatto amare
il CRAZY HORSE appena pochi mesi fa, riuscendo a elidere ogni tautologia tra
modalità di regia e oggetto
ripreso: i luoghi (università/locale notturno) parlano più attraverso i
silenzi e il realismo cronologico delle riprese che per interposta
interpretazione soggettiva o emotiva. Wiseman possiede questa incredibile
capacità di rendere nobile e apprezzabile il più piccolo dettaglio (meglio:
la democratica parata di tutti i dettagli) di qualunque attività umana che
si dipani di fronte ai nostri occhi. La meticolosità del fare e del
ragionare, anche lentissimamente, secondo le variabili ma inattaccabili
logiche della ratio di ogni pratica, finisce col rendere degno “tutto”,
dallo striptease performato con stile, all’allenamento pugilistico, alla
infinite dinamiche nate in un contesto di campus universitario. Tutto
semplicemente “è” perché così deve essere, forse senza via di scampo o senza
possibilità alcuna di essere diversamente.30/30
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