
Una giornalista esplora un caseggiato di
antica data tra Jaffa e Bat Yam. Lì, una donna israeliana (ora morta) viveva
con il marito arabo; intorno a loro, varia umanità (soprattutto arabi, ma
anche ebrei) che con loro intrattiene qualche legame, non necessariamente
solo di parentela.
Per scandagliare questo microcosmo, Gitai gioca la carta del pianosequenza.
Un'unica inquadratura per più di ottanta minuti. Si tratta di un
piano-sequenza segmentato, in cui il regista ci lascia piena opportunità di
“assorbire” con gli occhi un dato spazio o una data situazione prima di
muoversi (grazie al movimento della protagonista pedissequamente seguita -
soluzione un po' pigra in verità) e passare a un altro. Architetto
consumato, Gitai sa rendere assai bene il carattere labirintico di quel
complesso, e si mostra capace di alternare una sensazione claustrofobica per
cui sono sempre gli stessi luoghi ad essere calpestati, ad una invece di
continua scoperta di anfratti che prima non si conoscevano.
In questo senso di “sdrucciolevole” stratificazione (anche temporale, visti
i racconti con cui costantemente i protagonisti ritagliano nel presente
continuo del pianosequenza un posto per il peso del passato) sta tutta
l'utopia del film, che cerca appunto di darci l'immagine di una comunità di
non-appartenenti in cui a stare insieme sono precisamente gli elementi tra
loro incompatibili. Il finale del film, con la macchina da presa che si
libra in cielo, sigilla appunto il trascendere le differenze dopo aver
sbattuto contro la loro irriducibilità dentro la strenua unità spaziale in
cui si trovano accatastate.
Il problema del film non è tanto che il Gitai migliore (quello di 10-15 anni
fa) valeva proprio perché non aveva nessun bisogno di affidarsi a un
dispositivo (il piano sequenza unico) meccanico come questo, per restituire
i suoi blocchi di tempo che con la loro monumentalità stridevano gli uni
contro gli altri, e il cui carattere politico procedeva proprio da questo
guardare in faccia la dissonanza. Il problema sta piuttosto nel fatto che
questo ingegnoso, opportuno e riuscitissimo assetto spaziale riverbera la
propria natura labirintica dove non dovrebbe: nei dialoghi. Dopo un quarto
d'ora, capiamo benissimo che cosa e chi i personaggi siano. Ma per un'ora e
passa, i personaggi non fanno praticamente altro che ripetersi. Al netto di
svariati, e appropriati, momenti in cui il discorso si allarga dal
“geopolitico applicato” al gender o alle relazioni economiche, offrendo una
salutare complicazione del pur intricato rapporto interno-esterno in cui si
avventura il film, i personaggi si limitano a riproporre quello che già
sappiamo di loro, rilanciando la sensazione di vicolo cieco che, in modalità
più saggiamente porose, Gitai costruisce spazialmente. Il che non aiuta a
evitare di cadere nel grosso rischio di un progetto del genere, rischio in
cui Ana Arabia appunto cade:
quella di sottrarre sostanza al pur forte impatto visivo, rendendo l'utopia
geopolitica sulla convivenza tra etnie/religioni diverse poco più che
velleitaria. 24/30 |