Ana arabia
di Amos Gitai
Yuval Scharf, Sarah Adler

 

VENEZIA 70
Israele-Francia, 84'

 

Una giornalista esplora un caseggiato di antica data tra Jaffa e Bat Yam. Lì, una donna israeliana (ora morta) viveva con il marito arabo; intorno a loro, varia umanità (soprattutto arabi, ma anche ebrei) che con loro intrattiene qualche legame, non necessariamente solo di parentela.
Per scandagliare questo microcosmo, Gitai gioca la carta del pianosequenza. Un'unica inquadratura per più di ottanta minuti. Si tratta di un piano-sequenza segmentato, in cui il regista ci lascia piena opportunità di “assorbire” con gli occhi un dato spazio o una data situazione prima di muoversi (grazie al movimento della protagonista pedissequamente seguita - soluzione un po' pigra in verità) e passare a un altro. Architetto consumato, Gitai sa rendere assai bene il carattere labirintico di quel complesso, e si mostra capace di alternare una sensazione claustrofobica per cui sono sempre gli stessi luoghi ad essere calpestati, ad una invece di continua scoperta di anfratti che prima non si conoscevano.
In questo senso di “sdrucciolevole” stratificazione (anche temporale, visti i racconti con cui costantemente i protagonisti ritagliano nel presente continuo del pianosequenza un posto per il peso del passato) sta tutta l'utopia del film, che cerca appunto di darci l'immagine di una comunità di non-appartenenti in cui a stare insieme sono precisamente gli elementi tra loro incompatibili. Il finale del film, con la macchina da presa che si libra in cielo, sigilla appunto il trascendere le differenze dopo aver sbattuto contro la loro irriducibilità dentro la strenua unità spaziale in cui si trovano accatastate.
Il problema del film non è tanto che il Gitai migliore (quello di 10-15 anni fa) valeva proprio perché non aveva nessun bisogno di affidarsi a un dispositivo (il piano sequenza unico) meccanico come questo, per restituire i suoi blocchi di tempo che con la loro monumentalità stridevano gli uni contro gli altri, e il cui carattere politico procedeva proprio da questo guardare in faccia la dissonanza. Il problema sta piuttosto nel fatto che questo ingegnoso, opportuno e riuscitissimo assetto spaziale riverbera la propria natura labirintica dove non dovrebbe: nei dialoghi. Dopo un quarto d'ora, capiamo benissimo che cosa e chi i personaggi siano. Ma per un'ora e passa, i personaggi non fanno praticamente altro che ripetersi. Al netto di svariati, e appropriati, momenti in cui il discorso si allarga dal “geopolitico applicato” al gender o alle relazioni economiche, offrendo una salutare complicazione del pur intricato rapporto interno-esterno in cui si avventura il film, i personaggi si limitano a riproporre quello che già sappiamo di loro, rilanciando la sensazione di vicolo cieco che, in modalità più saggiamente porose, Gitai costruisce spazialmente. Il che non aiuta a evitare di cadere nel grosso rischio di un progetto del genere, rischio in cui Ana Arabia appunto cade: quella di sottrarre sostanza al pur forte impatto visivo, rendendo l'utopia geopolitica sulla convivenza tra etnie/religioni diverse poco più che velleitaria.
24/30