biennale teatro 2011

 

 JAN LAUWERS & NEEDCOMPANY

isabella's room

 

11 ottobre h21, Teatro alle Tese

 

di Gabriele FRANCIONI

Jan Lauwers & Needcompany: scheda

Testi Jan Lauwers, tranne “The Liar’s Monologue” scritto da Anneke Bonnema con Viviane De Muynck (Isabella), Anneke Bonnema (Anna), Benoît Gob (Arthur), Hans Petter Dahl (Alexander), Maarten Seghers (Frank), Julien Faure (The Desert Prince), Yumiko Funaya (Sister Joy), Sung-Im Her (Sister Bad), Misha Downey (Narrator) musica Hans Petter Dahl, Maarten Seghers testi delle canzoni Jan Lauwers, Anneke Bonnema danza Julien Faure, Ludde Hagberg, Tijen Lawton, Louise Peterhoff costumi Lemm&Barkey scene Jan Lauwers luci Jan Lauwers suono Dré Schneider produzione Needcompany in coproduzione con Festival d’Avignon, Théâtre de la Ville (Paris), Théâtre Garonne (Toulouse), La Rose des Vents (Scène Nationale de Villeneuve d'Ascq), Brooklyn Academy of Music (New York), welt in basel theaterfestival con la collaborazione di Kaaitheater (Brussels) con il supporto delle Istituzioni Fiamminghe

29/30

Undici centri d’energia per l’arte totale

Undici performer sparsi in uno spazio senza confini e profondità, reso astratto dal biancore generale e da alte luci zenitali, inscenano un musical (auto)biografico sul doppio verità/menzogna, con il continente africano e la perdita di un padre etnologo sullo sfondo. La sinestesia non caotica delle sollecitazioni audiovisive che si succedono per quasi tre (impreviste) ore ottiene l’effetto di coinvolgere il pubblico, che, se non fosse per il doveroso tributo allo zeitgeist anti-partecipativo di questi anni ancora imbalsamati, si riverserebbe sul piano delle Tese che funge da palcoscenico. Anche se dal 2004, primo anno di ISABELLA’S ROOM, Lauwers si è rivolto verso altre direzioni, il pluripremiato happening che ruota attorno alla finta regina d’Africa Vivianne De Muynck , madre del Ricordo e del Falso, continua ad essere avvolto da un’aura piacevolmente anarchica, che trae dalla poetica dadaista passata al setaccio dell’improvvisazione beckiana (qui depoliticizzata) e di una più generale idea d’arte totale e multimedializzante il suo punto di partenza. In forma di live performance contrappuntata da frequenti momenti musicali e coreografici, il racconto scenico ideato da Jan Lauwers viene annunciato dallo stesso capocomico come un ragionamento a voce alta sul senso del ricordo e sulle stratificazioni del tempo che ne alterano il contenuto di realtà. Lo spunto è l’ingombrante eredità di utensili e oggetti esotici lasciatagli dal padre Felix: il regista ce li espone quasi si trattasse di un bazaar installativo in cui ciascuno chiede a collane/statuette/maschere di parlare in vece di qualcos’altro (o qualcun’altro) e raccontare un pezzo della storia e di Storia. ISABELLA’S ROOM è la gioiosa rielaborazione-puzzle di un’assenza, in forma di collage di episodi pantomimici, monologanti, cantati o danzati, durante il quale implodiamo nel racconto ipnotico e deformante della protagonista. Isabella-Vivianne pulsa vitalità debordante, al punto da creare un vortice narrativo nel quale il dolore della perdita è sempre un disvalore o quantomeno una perdita di tempo. La donna è pura energia erotica in azione, fonte di atti generativi agiti compulsivamente attraverso un arco di vari decenni, a partire dalla nascita di Felix Lauwers, sino a quello della sua recente scomparsa. Il padre del regista belga, morto nel 2002 a 77 anni dopo una vita errante e a suo modo performativa, diventa il vuoto attorno al quale costruire lo spettacolo, ma senza fissare muri portanti. Siamo costantemente in viaggio, felici come Felix, anche se non dovremmo, per la teoria di morti e disgrazie che vengono narrate con leggiadria. La protagonista è un’ottantenne ormai cieca che, dall’osservatorio domestico di Parigi, rilegge la propria esistenza frenetica, il cui trascorrere è scandito da colpi battuti quando viene enunciato un nuovo anno. I performer, di volta in volta attori-ballerini-musicisti, sono tutti il doppio di qualcosa che abbia a che fare con Isabella: due affascinanti ragazze orientali agiscono in quanto parti destra e sinistra del suo cervello, un altro anglo-cinese ne è la sfera sessuale, etc. La smania di ricostruire il passato nasce dalla mensonge da cui la donna ha avuto origine: i genitori adottivi Arthur (Benoit Gob, esilarante,recita in francese) e Anna (la sensuale Anneke Bonnema, in inglese e francese) la fanno crescere nella convinzione di un inesistente padre “principe del deserto”, scomparso durante una spedizione. Il vuoto lasciato dalla figura maschile ha prodotto una ninfomane volante, sempre impegnata a percorrere il globo, con al centro la fatal Africa, dove si convince di poter ritrovare, in ogni uomo, la replica paterna (ovvio che, rimasto innominato sino alla fine, il principe del deserto non sia altri che l’etnologo Felix Lauwers). Chi le sta al fianco viene annichilito dal fuoco interiore e dall’instabilità della donna e lo spettacolo è specchio fedele di una umoralità vagabonda. Anche se apparentemente disordinati, gli sketches attorial-musicali rispettano un ritmo molto preciso, controllato e diretto dal regista, che ne segue i tempi partecipando attivamente all’azione. Lauwers vuole però che la partitura si apra a variazioni anche sostanziali, rimanendo aperta alle variabili emotive e alle dinamiche che si generano sul palcoscenico. Due scene, in quest’ennesima replica, sono senza dubbio diverse dalle altre rappresentazioni: Isabella si lascia travolgere, con effetti para-comici, dall’imprevedibile intesa sessuale col nipote (un attore giovanissimo rispetto alla Muynck) e, nel finale, piange con reale e drammatica intensità. La mente della Needcompany, pur consapevole di aver imbastito un canovaccio assolutamente convenzionale, costruendolo attorno all’attrice fiamminga e alla sua massiccia fisicità, usa un registro epico-comico nell’orchestrazione della stesura drammaturgica teso a moltiplicare le fonti di energia visiva disposte sul palco, sia allo scopo di creare diversi punti di fuga per l’occhio spettatoriale, sia per creare le premesse per (auspicati) accidenti e imprevisti. Opera totale e opera aperta insieme, insomma. Invece di portare in tournée infinite repliche identiche a se stesse, il regista opta per una ricreazione di ISABELLA’S ROOM, servendosi di prove durante le quali non è necessario memorizzare alla perfezione il testo, quanto piuttosto intervenire su di esso con il desiderato surplus creativo apportato dagli attori. No riproduzioni, quindi, ma produzioni. Con la strategia del fuori-centro e dell’uso dilagativo dello spazio scenico, tutto ciò è reso possibile, perché gli 11 performer - poche le presenze fisse dal 2004 - agiscono fisicamente in una dimensione che è specchio dell’apertura verso la quale vengono (pre)disposti. Chi guarda opera un montaggio personale dei vari centri visivi, agendo direttamente sulla materia teatrale. Smontando l’apparato espressivo univocamente diretto del cinema o del teatro tradizionale e attingendo come dettavano le avanguardie a musica e arti visive, Lauwers agisce contro il Sistema, che fa invece di un Anish Kapoor (citato in conferenza) una star bigger than life, ma per questo sottratta alla possibilità di esprimersi politicamente. Che significa, volendo, suscitare le reazioni infervorate del critico del New York Times, scagliatosi contro lo spettacolo per i presunti contenuti offensivi nei confronti delle popolazioni indigene africane - molto probabilmente in riferimento alla sfera sessuale - e per l’“incesto” tra nonna e nipote. In realtà l’Africa non c’entra nulla, l’esotismo è pane per gli stolti: la lente d’ingrandimento deforma invece di mettere a fuoco ed è ovvio che lo sguardo ossessivo verso quel centro del racconto non vuol far altro che portarci via da esso. Si parla di morte tenuta sempre fuori campo o ridicolizzata, di dolore e di paura nell’esatto istante in cui li si nega, col pretesto di un vitalismo senza fine.

SITO UFFICIALE

 

biennale teatro 2011

 JAN LAUWERS & NEEDCOMPANY

 

10 ottobre > 16 ottobre 2011