Testi Jan Lauwers, tranne “The Liar’s Monologue” scritto da
Anneke Bonnema con Viviane De Muynck (Isabella), Anneke Bonnema (Anna),
Benoît Gob (Arthur), Hans Petter Dahl (Alexander), Maarten Seghers (Frank),
Julien Faure (The Desert Prince), Yumiko Funaya (Sister Joy), Sung-Im Her
(Sister Bad), Misha Downey (Narrator) musica Hans Petter Dahl, Maarten
Seghers testi delle canzoni Jan Lauwers, Anneke Bonnema danza Julien Faure,
Ludde Hagberg, Tijen Lawton, Louise Peterhoff costumi Lemm&Barkey scene Jan
Lauwers luci Jan Lauwers suono Dré Schneider produzione Needcompany in
coproduzione con Festival d’Avignon, Théâtre de la Ville (Paris), Théâtre
Garonne (Toulouse), La Rose des Vents (Scène Nationale de Villeneuve
d'Ascq), Brooklyn Academy of Music (New York), welt in basel theaterfestival
con la collaborazione di Kaaitheater (Brussels) con il supporto delle
Istituzioni Fiamminghe |
Undici centri
d’energia per l’arte totale
Undici performer sparsi in uno spazio senza confini e profondità, reso
astratto dal biancore generale e da alte luci zenitali, inscenano un musical
(auto)biografico sul doppio verità/menzogna, con il continente africano e la
perdita di un padre etnologo sullo sfondo. La sinestesia non caotica delle
sollecitazioni audiovisive che si succedono per quasi tre (impreviste) ore
ottiene l’effetto di coinvolgere il pubblico, che, se non fosse per il
doveroso tributo allo zeitgeist anti-partecipativo di questi anni ancora
imbalsamati, si riverserebbe sul piano delle Tese che funge da palcoscenico.
Anche se dal 2004, primo anno di ISABELLA’S ROOM, Lauwers si è rivolto verso
altre direzioni, il pluripremiato happening che ruota attorno alla finta
regina d’Africa Vivianne De Muynck , madre del Ricordo e del Falso, continua
ad essere avvolto da un’aura piacevolmente anarchica, che trae dalla poetica
dadaista passata al setaccio dell’improvvisazione beckiana (qui
depoliticizzata) e di una più generale idea d’arte totale e
multimedializzante il suo punto di partenza. In forma di live performance
contrappuntata da frequenti momenti musicali e coreografici, il racconto
scenico ideato da Jan Lauwers viene annunciato dallo stesso capocomico come
un ragionamento a voce alta sul senso del ricordo e sulle stratificazioni
del tempo che ne alterano il contenuto di realtà. Lo spunto è l’ingombrante
eredità di utensili e oggetti esotici lasciatagli dal padre Felix: il
regista ce li espone quasi si trattasse di un bazaar installativo in cui
ciascuno chiede a collane/statuette/maschere di parlare in vece di
qualcos’altro (o qualcun’altro) e raccontare un pezzo della storia e di
Storia. ISABELLA’S ROOM è la gioiosa rielaborazione-puzzle di un’assenza, in
forma di collage di episodi pantomimici, monologanti, cantati o danzati,
durante il quale implodiamo nel racconto ipnotico e deformante della
protagonista. Isabella-Vivianne pulsa vitalità debordante, al punto da
creare un vortice narrativo nel quale il dolore della perdita è sempre un
disvalore o quantomeno una perdita di tempo. La donna è pura energia erotica
in azione, fonte di atti generativi agiti compulsivamente attraverso un arco
di vari decenni, a partire dalla nascita di Felix Lauwers, sino a quello
della sua recente scomparsa. Il padre del regista belga, morto nel 2002 a 77
anni dopo una vita errante e a suo modo performativa, diventa il vuoto
attorno al quale costruire lo spettacolo, ma senza fissare muri portanti.
Siamo costantemente in viaggio, felici come Felix, anche se non dovremmo,
per la teoria di morti e disgrazie che vengono narrate con leggiadria. La
protagonista è un’ottantenne ormai cieca che, dall’osservatorio domestico di
Parigi, rilegge la propria esistenza frenetica, il cui trascorrere è
scandito da colpi battuti quando viene enunciato un nuovo anno. I performer,
di volta in volta attori-ballerini-musicisti, sono tutti il doppio di
qualcosa che abbia a che fare con Isabella: due affascinanti ragazze
orientali agiscono in quanto parti destra e sinistra del suo cervello, un
altro anglo-cinese ne è la sfera sessuale, etc. La smania di ricostruire il
passato nasce dalla mensonge da cui la donna ha avuto origine: i genitori
adottivi Arthur (Benoit Gob, esilarante,recita in francese) e Anna (la
sensuale Anneke Bonnema, in inglese e francese) la fanno crescere nella
convinzione di un inesistente padre “principe del deserto”, scomparso
durante una spedizione. Il vuoto lasciato dalla figura maschile ha prodotto
una ninfomane volante, sempre impegnata a percorrere il globo, con al centro
la fatal Africa, dove si convince di poter ritrovare, in ogni uomo, la
replica paterna (ovvio che, rimasto innominato sino alla fine, il principe
del deserto non sia altri che l’etnologo Felix Lauwers). Chi le sta al
fianco viene annichilito dal fuoco interiore e dall’instabilità della donna
e lo spettacolo è specchio fedele di una umoralità vagabonda. Anche se
apparentemente disordinati, gli sketches attorial-musicali rispettano un
ritmo molto preciso, controllato e diretto dal regista, che ne segue i tempi
partecipando attivamente all’azione. Lauwers vuole però che la partitura si
apra a variazioni anche sostanziali, rimanendo aperta alle variabili emotive
e alle dinamiche che si generano sul palcoscenico. Due scene, in
quest’ennesima replica, sono senza dubbio diverse dalle altre
rappresentazioni: Isabella si lascia travolgere, con effetti para-comici,
dall’imprevedibile intesa sessuale col nipote (un attore giovanissimo
rispetto alla Muynck) e, nel finale, piange con reale e drammatica
intensità. La mente della Needcompany, pur consapevole di aver imbastito un
canovaccio assolutamente convenzionale, costruendolo attorno all’attrice
fiamminga e alla sua massiccia fisicità, usa un registro epico-comico
nell’orchestrazione della stesura drammaturgica teso a moltiplicare le fonti
di energia visiva disposte sul palco, sia allo scopo di creare diversi punti
di fuga per l’occhio spettatoriale, sia per creare le premesse per
(auspicati) accidenti e imprevisti. Opera totale e opera aperta insieme,
insomma. Invece di portare in tournée infinite repliche identiche a se
stesse, il regista opta per una ricreazione di ISABELLA’S ROOM, servendosi
di prove durante le quali non è necessario memorizzare alla perfezione il
testo, quanto piuttosto intervenire su di esso con il desiderato surplus
creativo apportato dagli attori. No riproduzioni, quindi, ma produzioni. Con
la strategia del fuori-centro e dell’uso dilagativo dello spazio scenico,
tutto ciò è reso possibile, perché gli 11 performer - poche le presenze
fisse dal 2004 - agiscono fisicamente in una dimensione che è specchio
dell’apertura verso la quale vengono (pre)disposti. Chi guarda opera un
montaggio personale dei vari centri visivi, agendo direttamente sulla
materia teatrale. Smontando l’apparato espressivo univocamente diretto del
cinema o del teatro tradizionale e attingendo come dettavano le avanguardie
a musica e arti visive, Lauwers agisce contro il Sistema, che fa invece di
un Anish Kapoor (citato in conferenza) una star bigger than life, ma per
questo sottratta alla possibilità di esprimersi politicamente. Che
significa, volendo, suscitare le reazioni infervorate del critico del New
York Times, scagliatosi contro lo spettacolo per i presunti contenuti
offensivi nei confronti delle popolazioni indigene africane - molto
probabilmente in riferimento alla sfera sessuale - e per l’“incesto” tra
nonna e nipote. In realtà l’Africa non c’entra nulla, l’esotismo è pane per
gli stolti: la lente d’ingrandimento deforma invece di mettere a fuoco ed è
ovvio che lo sguardo ossessivo verso quel centro del racconto non vuol far
altro che portarci via da esso. Si parla di morte tenuta sempre fuori campo
o ridicolizzata, di dolore e di paura nell’esatto istante in cui li si nega,
col pretesto di un vitalismo senza fine. |