biennale arte illuminazioni 2011
intervista a giovanni manfredini
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Ha detto che “la pittura è come una grande barca che porta materia millenaria”: cosa selezionerebbe Manfredini tra questo carico?
Quando parlo di materia millenaria mi riferisco al tempo e alla storia; credo che siamo il punto di arrivo e di ripartenza di un percorso che ci appartiene, in tutti i gesti che facciamo. Ognuno di noi, nel momento in cui guarda il cielo, ha dentro di sé tutti gli altri esseri umani che l’hanno guardato prima. Ci sono alcuni elementi che fanno parte di una cultura che inconsciamente ci è stata tramandata, sia per via genetica, che per via emotiva. Il carico millenario mi fa pensare a una visione poetica dei milioni e milioni di gesti che si sono consumati, dalle carezze delle madri ai figli, alle guerre, ai ghiacciai che si sciolgono, a un bel tramonto, a tutto il percorso evolutivo dell’uomo. Io penso che ognuno di noi abbia questa consapevolezza, che si trasforma spesso in un istinto di sopravvivenza che è un grande carburante per sopravvivere. Ognuno di noi ha una predisposizione alla conoscenza. Cito una serie di artisti del passato che ho particolarmente amato, apprezzato, e continuo ad amare e apprezzare: Caravaggio, Goya, Ribera e Velasquez sono stati i grandi innamoramenti della mia incoscienza, quando sentivo che avevo nelle mani qualcosa di ulteriore da dare o da dire, ma non sapevo ancora bene quale forma dovesse prendere.Ribera è forse quello che ho amato e amo di più, l’ho visto per la prima volta al Prado, in occasione di una mostra retrospettiva, e davvero mi ha fatto capire qual era la luce che io cercavo. Non mi incuriosiva tanto il racconto di Ribera o Caravaggio, ma mi interessava singolarmente come si approcciavano al rapporto tra l’essere umano e la luce.Ho avuto così la prima coscienza strutturale di ciò che mi emozionava e che avrei voluto perseguire in una chiave contemporanea. Grazie a Ribera più che a Caravaggio.Quando entrai in quelle sale del Prado fu una vertigine emotiva e capii che c’era in quei dipinti qualcosa che mi apparteneva, strutturalmente. Da lì è partita anche tutta la ricerca stilistica del mio lavoro, mi connota proprio questa purezza estrema della luce, questi corpi emergenti dalle tenebre.Stavo lavorando parallelamente su altre cose, dopo quell’ “incontro” ho preso coscienza e poco dopo sono nati i Tentativi di esistenza. Tra il famoso carico di pittura ho sentito su di me come privilegiata questa pittura densa e allo stesso tempo pura, trasparente. C’era una sacralità della luce nella pittura di Ribera che è diventata per me una strada da seguire, una possibilità enorme. Ho sempre avuto la voglia di scontrarmi con i giganti.I giganti valgono in questo senso: giganti di qualcosa che è talmente più grande di te da stimolarti al confronto. Bisogna aver coraggio, non paura del confronto e chiaramente le sentenze non arriveranno mai subito, bisogna anche saper attendere un giudizio: tra mille anni forse i miei corpi riprenderanno a brillare e ci sarà chi li prenderà come un punti di riferimento, come io ho riletto dei grandi. Apprezzo anche alcuni artisti contemporanei: il contemporaneo mi interessa molto, perché noi siamo contemporanei, ma non mi sono neanche mai sentito “non contemporaneo” citando Ribera, Caravaggio, Goya o Velasquez.
Si considera spesso il contemporaneo come qualcosa legato strutturalmente a quello che sta succedendo nell’attimo in cui vivi. Si può pensare che il massimo del contemporaneo adesso sia il video, o un’arte legata a un messaggio politico; invece credo che col passare degli anni ci si renderà conto che quello che rappresentava un certo periodo non era in realtà quello che in quel momento funzionava. Io penso sempre che quello che ha descritto nel modo migliore un determinato periodo storico non fosse quello che in quel momento andava di moda o veniva recepito. Perché è difficile che sia abbia la capacità nel momento in cui si vive di percepire quello che realmente credi ti stia rappresentando. Sono per esempio assolutamente convinto che questi nostri anni siano molto più rappresentati dal silenzio che dal caos. Mi piacciono Bill Viola e Andres Serrano, Viola perché cita Giovanni Bellini, Pontormo, altri veri grandi del passato; Serrano perché con la fotografia vuole fare pittura: con la serie The Morgue affronta una tematica contemporanea, cruda, dura, ma lo fa con la luce eterna della grande pittura. Un certo tipo di carico millenario che deriva da ciò che noi abbiamo visto e amato non è mai banale, ma va ricercato, perché è qualcosa di sacro che è stato tramandato per secoli. Il San Matteo e l’angelo di Caravaggio possiede già tutti gli elementi per me fondamentali: la sacralità, l’uomo, la carne. Se si rielabora su una struttura mentale poetica che ha anche delle radici nel tempo, ciò che si crea diventa eterno. Più vado avanti più ho voglia di dipingere solo delle crocifissioni, laiche a mio modo, perché davvero credo che tutti noi siamo come dei Cristi che stanno volando e campando, anche se non ne siamo consapevoli. Tornando alla lista degli artisti contemporanei che apprezzo includo anche Roman Opalka, la sua documentazione del passaggio del tempo in un intreccio tra ricerca artistica e esistenziale. Marc Quinn è però uno dei miei preferiti in assoluto. L’opera Self è il suo capolavoro, avrei voluto farlo io quel lavoro! Anche le prime opere di Damien Hirst erano molto potenti, si è poi innescato un meccanismo esclusivamente commerciale che ha fatto perdere il vista il loro senso reale. La mostra Sensation fu un grande impatto a livello emotivo per me, mi sono sentito vicino alle tematiche affrontate dai Young British Artists. Fondamentale per la mia crescita artistica è stata poi la frequentazione con Gilberto Zorio e Giuseppe Penone, i due mesi a Torino passati con loro. L’arte povera parte dal presupposto che è la materia che la natura fornisce a diventare poesia; essa ha una potenzialità espressiva più pura rispetto a ciò che può essere creato. L’approccio chimico di selezione tra i diversi media reagenti, la ricerca di una potenzialità ulteriore attraverso i materiali nasce perché non mi bastava una pittura “ordinaria”, non mi sembrava sufficiente il disegno ma volevo qualcosa che andasse oltre: il fuoco, il fumo, la perlite sono le materie che mi hanno permesso di farlo. La trasparenza, la luce insita nella pasta di perlite è qualcosa di insuperabile. La mia radice è senza dubbio l’arte povera proprio per l’interesse per la dimensione energetica e vitale dei materiali. Il mio esordio artistico è segnato dalle tre mostre con Gilberto Zorio a Modena presso la Galleria Rossana Ferri; lui mi ha insegnato moltissimo, è stato per me un vero maestro. La mia vera e unica scuola sono stati i due mesi passati con lui a Torino. Zorio mi disse che l’arte va sempre considerata e scritta con la a maiuscola, perché va rispettata, e che nel momento in cui ci si sente artisti ogni cosa che si crea deve avere a che fare con l’eterno. Questi due concetti sono stati fondamentali per tutto quello che ho poi creato: il pensare di avere a che fare con una materia che è vita, che è sacra non può che dar vita a un’arte con la a maiuscola, come il pensare di avere a che fare con l’eterno ti porta a creare opere che non sono mera decorazione finalizzata a addobbare salotti. Da artista credo che ogni parete sia sacra, lo spazio dove verrà collocato un mio quadro è sacro e verrà sacralizzato da esso. Ogni parete è un altare potenziale, non esistono solo i tradizionali spazi della galleria o del museo come privilegiati. Spesso mi hanno chiesto perché ho sentito il bisogno di far entrare me stesso dentro il lavoro attraverso il calco: perché è qualcosa che ha a che fare con la contemporaneità, con la vita, con me stesso esistente in quel momento; e poi per la volontà di abbracciare la mia opera nel senso letterale del termine. Non lavoro con un pennello o uno scalpello in mano ma trasferisco energia dal mio corpo al corpo del quadro, il calore del mio corpo è trasmesso in maniera tattile sulla superficie. L’approccio è lo stesso del suicida che vuol sentire tutto, con una grossa parte costruttiva ma anche distruttiva. Ogni volta lì si deposita una parte di me che si disperde, ma si rigenera sulla superficie. Mollare lentamente le proprie strutture, i proprio blocchi e protezioni. Scegliere la propria nudità, fisica o emotiva, come differenza. Questo è un privilegio. Essere in grado si spogliarsi, mentalmente più che fisicamente, è una grande prova di forza.
Cosa legge Manfredini? Chi sono i suoi scrittori preferiti?
Attualmente non sono un grandissimo lettore, mi manca il tempo da dedicare alla lettura; in passato ho letto tantissimo, ma ho anche dimenticato altrettanto. Tutta una serie di vicende, sfortune se si vuole, quelle lunghe giornate passate in ospedale mi portarono a leggere Cesare Pavese, che mi ha aperto. Ho letto a soli tredici anni Il mestiere di vivere, se ci penso ora non so nemmeno come feci a comprenderlo. Non a caso mio figlio si chiama Cesare, è un omaggio a colui che a un certo punto mi ha fatto capire che nella mia vita poteva esserci anche qualcos’altro. Dopo Pavese ho letto molto, ma pochissimi hanno lasciato un segno. Solitamente di una lettura estrapolo dei pezzi, fotografo frammenti e quelli restano. Il mio libro ideale è formato da tanti singoli pezzi, che formano una sorta di grande mosaico, che comprende anche Celine, che ho letto da giovanissimo, ma non avevo capito; Viaggio al termine della notte lo puoi comprendere solo dopo aver vissuto un po’, sentirlo profondamente e visceralmente. L’ho capito a più di quarant’anni quando mi sono ritrovato qui a Milano, a rileggerlo nelle notti, solo. Lo lessi veramente per la prima volta dopo vent’anni che già l’avevo letto. C’ è un altro autore che amo particolarmente, Hanif Kureishi. Se vedo un suo libro lo compro a occhi chiusi, non tradisce mai le mie aspettative.
Il suo primo ciclo di opere, intitolato Altari di solitudine, fu esposto nel 1989 alla Biennale dei giovani artisti dell’Europa Mediterranea. Come nacque? Può descriverlo?
Sono lavori molto diversi da quelli attuali, ma è l’inizio e in quanto tale è importante. In quell’anno feci un viaggio in Turchia e Iran che durò più di un mese, che mi diede lo stimolo alla ripresa della pittura. Già quando ero alle scuole medie dipingevo, soprattutto ritratti a mia madre, era un talento naturale, poi abbandonai tutto, perché la vita era talmente violenta verso di me che non avevo tempo da dedicare all’arte. Il mio esercizio quotidiano era quello della sopravvivenza, quando lotti per sopravvivere non hai la giusta lucidità per creare. L’atto creativo viene solo se tu hai cosciente controllo di quello che tu sei, puoi anche essere visionario, ma non salvare te stesso e allo stesso tempo creare. Durante il viaggio in Turchia vidi le chiese rupestri della Cappadocia scavate nel tufo, e rimasi molto impressionato, smisi di fare fotografie, volevo memorizzare solo nella mia mente e capii che mi era tornata la voglia di dipingere, di creare. Tornato dal viaggio affittai uno studio e mi misi a creare gli Altari di solitudine, lavori enormi, che erano la ricostruzione di alcune grotte, che poi incidevo all’interno. Quello che forse ha più a che fare con quello che ho creato dopo si intitola Attraverso l’infinito, grande 2,30 m x 2,30 m, costituito da un fondo di ossido blu, che visto da lontano sembra un colore uniforme; avvicinandosi si percepiscono invece le impronte delle mie mani, che hanno percorso l’intera superficie. C’era già quella parte tattile divenuta poi fondamentale nella mia opera. All’interno ho creato poi una sorta di albero tridimensionale con lo stucco, in ossido nero; questa pianta che assumeva quasi la forma di una croce richiamava una croce nera posta su un altro lato e in fondo una piccola figura, un uomo inchiodato a una croce invisibile. È uno sfondamento attraverso l’infinito, come se dalla natura si arrivasse all’uomo, attraverso la spiritualità. Lo feci in totale incoscienza, in un delirio creativo, che contiene già tutti gli elementi portati poi avanti dopo. Tutto il ciclo di lavori si intitola Altari di solitudine perché trovandomi solo in Cappadocia, all’interno di queste chiese, ogni parte era per me come un altare; volevo avere lo stesso rapporto di chi secoli prima, scavate queste grotte nel tufo, si ritrovava poi ad affrescare e incidere al loro interno. Un altro lavoro si intitolava Altare per il re dell’oscurità, il colore usato stavolta era l’arancione, ma era una pittura sporca, densa; c’è la figura di un re incisa all’interno e un rapace enorme, nero che occupa quasi tutta la superficie; quest’opera nasceva da una riflessione sulle ombre degli oggetti, che sembrano enormi se illuminati dal basso. Sono stato subito selezionato per questa Biennale dei giovani artisti dell’Europa Mediterranea, scelto tra quattrocento candidati, e quando mi dissero di portare le opere per esporle non uscivano dalla porta! Le avevo assemblate all’interno e dovetti rompere la porta per farle uscire! Ero un perfetto sconosciuto, la mia scheda di presentazione aveva segnato solo il mio titolo di studio, istituto tecnico commerciale; mostre: nessuna.
La “molla”di dedicarsi all’arte è nata in un momento preciso o è sempre giaciuta latente in lei?
è sempre giaciuta latente. L’arte è una malattia. è lei che ti sceglie, è una chiamata. è come il talento, arriva e puoi decidere se avere la coscienza o il bisogno di usarlo o meno. Anche nell’insensibilità o nell’incoscienza si può essere felicissimi. Io preferisco la disperazione e la coscienza. Per chi decide di votarsi all’arte essa può diventare tutto ciò che ti fa respirare, ma che può ucciderti allo stesso tempo. Non c’è nulla di peggiore che l’artista frustrato, se non riesce a emergere resta un infelice assoluto, un ucciso dentro.
Perché ha scelto proprio la pasta di perlite come media reagente e base dei suoi lavori?
Perché la perlite è il tipo di tono che si avvicina maggiormente alla pura luce. Io lavoro con la luce, non col bianco, con il buio e non con il nero. Buio e luce comprendono tutti i passaggi di tono, l’ombra, le varie tonalità di grigio. La perlite è una farina di conchiglie tritate, bianchissima, come un talco, che distribuita sui pannelli in forma liquida, essiccando diventa una sostanza porosa, come una seconda pelle, su cui poi stendo il fumo. La perlite è solitamente usata per purificare il vino, c’è quindi anche un richiamo a questa funzione di purificazione.
L’Autoritratto (Sordo-Muto) è un calco del suo viso che presenta un particolare interessante: il guscio dorato di una lumaca al posto dell’orecchio. Perché? Si può considerare come un rifugio, una protezione?
La struttura interna dell’orecchio è a spirale, l’ho resa visibile all’esterno utilizzando il guscio della conchiglia per rappresentare lo stato mentale e spirituale del silenzio. La spirale esterna protegge una forma di assoluto silenzio che rimane all’interno, impedisce l’entrata a qualsiasi altro suono e raccoglie tutto ciò che si propaga all’esterno, impedendone la dispersione nell’ambiente. è una corrispondenza tra due strutture identiche all’interno e all’esterno. La chiocciola raccolta in natura è poi nobilitata e sacralizzata dall’uso dell’oro.
è del 1993 il primo quadro dove appare la scritta tridimensionale “VIVI”, un passaggio fondamentale per i successivi esiti formali e etici della sua opera. Può descriverla?
Sei linee rette che non si chiudono mai costruiscono un concetto aperto che ognuno può interpretare, sostantivo o imperativo; sei chiodi acuminati che possono ferire, aggettanti affrontano lo spazio. Sei linee d’ombra incancellabili. Il mio primo corpo. La mia prima deposizione. Colpiti dalla luce i sei chiodi arrugginiti proiettano l’ombra “VIVI” sempre all’interno del perimetro; la cornice è parte integrante delle mie opere, non si può eliminare o sostituire. La superficie è caratterizzata dalla presenza del medesimo media reagente: pasta di perlite e colla, non annerita però a nerofumo. La ruggine della cornice e dei chiodi, che reagisce a contatto col supporto organico della perlite, una seconda pelle, ossidandosi, rappresenta la cicatrizzazione del lavoro. VIVI rappresenta anche la mia prima deposizione perché in quei sei chiodi allineati orizzontalmente vedevo un corpo. Quello è stato anche il primo corpo che ho realizzato, che successivamente si è concretizzato. È un’opera che ha insita un’energia che si rigenera, ogni volta che viene illuminata.
“Penso che bisogna avere una fede ideologica precisa per generare un’immagine”. Questa fede è di matrice religiosa o ontologica? Tutto è religioso, tutto è ontologico. Ogni pensiero ha a che fare con l’ideologia, se ha una fonte e un fine. Vivo la religiosità che mi posso permettere. Una religiosità legata al pensiero. Mi interessa la fonte della religione, come fonte del pensiero e del sacro. Quando si parla di religione c’è sempre una connessione con qualcosa di assoluto. Religioso può essere qualsiasi gesto legato al vissuto personale di ciascuno.
I corpi dei “Tentativi di esistenza” secondo Tommaso Trini lottano, secondo Marina Pizziolo sono strazianti sindoni. La mia lettura personale non è così negativa, non vedo solo questa disperazione, ma mi sembrano anche a loro agio fluttuanti in quel buio dove, come dice lei “c’è estasi”. Mi sbaglio?
I miei corpi respirano, hanno avuto un percorso. Inizialmente erano delle figure più sudate, più disperate. Il sudore della pelle si comprimeva sulla tela come essenza dell’emozione. Ma già quelli erano corpi vivi, che respiravano, non sono mai state figure passive. Lottano col buio, ma sono allo stesso tempo esaltate da esso, cercano di uscire e ritrovare un proprio spazio. La luce nel corso del mio lavoro prende sempre più peso, le mie sono immagini molto positive, piene di energia. Un corpo poggiato coi piedi alla cornice inferiore di colpo può volare diventando un’immagine sacrale, un’epifania come hai scritto tu. Sono corpi che volano, lievitano pieni di energia, vivono, respirano. Respirare significa essere vivi. Cerco nei miei corpi, attraverso la luce, questo respiro. Non mi piacciono letture del mio lavoro che prendono in considerazione solo il dolore o la sofferenza. Il percorso della mia vita è stato durissimo, al di là di queste cicatrici. è automatico collegare le opere al mio vissuto personale che è l’origine, ma è qualcosa di totalmente superato…nero, buio, luce, tormento...sono sì una persona tormentata, ma primariamente viva. Mi sento un vincente, una persona che la vita ha cercato di schiacciare molte volte ma che è sempre risorto. Il mio dolore è la mia forza, le mie cicatrici la mia bellezza. Il mio lavoro è l’esaltazione della bellezza legata al tormento, vorrei che si percepisse più il lato della forza legata a questi lavori, che se ne fornisse una lettura positiva. Vorrei solo essere ricordato come un pittore, che è riuscito a creare qualcosa di nuovo e originale. Vorrei la cancellazione della pietà. Nulla è simbolico almeno quanto l’esistenza.
Tommaso Trini ha definito i suoi corpi “simbiotici”. Manfredini si sente in simbiosi con gli altri esseri umani?
Sono simbiotico a me stesso, la mia arte è la rigenerazione di me stesso. Ma un’opera d’arte in quanto tale deve recare un messaggio universale: ecco che allora ognuno può riconoscere in quel corpo l’uomo, come il titolo Tutti santi rimanda a una condizione generale.
Esiste un video che parla della sua storia e ricerca artistica: “L’arte del pugile”. Perché ha scelto proprio questo titolo?
Perché l’arte, la vita si svolge come se ci si trovasse su un immenso ring. Mi è sempre piaciuta la boxe, il video mostra il sacco da pugile che ho nello studio, e il tutto è stato un po’ romanzato. Vale però l’immagine del pugile, che sul ring si mette in gioco contro qualcuno che lo aggredisce, come chiunque combatte a modo suo nella vita normale. Un paradosso: due persone si incontrano su un ring e interagiscono attraverso un contatto fisico analogo a un abbraccio, che è in realtà uno scontro; è un incontro-scontro. Io ho scelto l’arte per scontrarmi coi miei limiti, le mie paure. L’incontro con l’arte mi ha anche portato ad abbracciarla, nel momento in cui abbracci l’arte ne subisci anche la forza, il peso di tutto ciò che è già stato creato con cui ti devi confrontare e contrapporre per non essere schiacciato. E’ la forza della materia millenaria con cui vale la pena di scontrarsi-incontrarsi. |
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biennale arte 2011 illuminazioni
04 giugno > 27 novembre
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