Deconstructing Quentin

commento ai premi

di Gabriele FRANCIONI

 

 

Per qualche strano motivo, Kinematrix era l’unica rivista presente a un incontro informale con l’équipe di ROAD TO NOWHERE, tenutosi ieri sera lontano dai luoghi ufficiali della Mostra del Cinema.

Hellman era accompagnato da sceneggiatore, montatrice, direttore della fotografia, produttori, coproduttori e attori, tra cui la splendente Shannyn Sossamon, vera diva del festival insieme ad Ariane Labed (ATTENBERG, Coppa Volpi come Miglior Attrice), reduci dalla proiezione in Sala Grande.

Due ore a chiacchierare amabilmente col regista di COCKFIGHTER, THE SHOOTING e TWO-LANE BLACKTOP valgono più di anni di studio matto e disperatissimo sulle carte del cinema.

 

 

Non è un caso che gli unici esseri umani completi incontrati nello show-biz provengano dalla New World Pictures di Roger Corman: Joe Dante, Jonathan Demme, Monte Hellman e Martin Scorsese sono un esempio chiaro di come sia non solo possibile, ma necessario e irrinunciabile continuare a far parlare la Bellezza ben oltre i ristretti confini temporali di una produzione cinematografica, portandola sul piano della comunicazione o della didattica, se non del talent-sharing, e dell’interazione con altri soggetti coinvolti nel processo di rappresentazione e diffusione del prodotto filmico finito.

Come ora che la Mostra è terminata e si cerca di psicanalizzarla attraverso la scansione attenta di un’attribuzione dei premi che, al solito, ha poco a che fare coi reali valori messi in campo.

 

La chiacchierata con Hellman, che ci ha portato a sfiorare l’argomento-Leoni e relative dinamiche, ha portato fortuna al miglior film del Concorso, costringendo una giuria spaccata in due a recuperare il salvagente del riconoscimento per l’Insieme dell’Opera.

 

 

è fin troppo evidente che tre giurati su sei - azzardiamo: Dapkunaite, Desplechin, Elfman - volessero attribuire a ROAD TO NOWHERE il massimo premio del Concours, fieramente contrastati dai restanti tre, abbagliati, invece, dal vuoto pneumatico di SOMEWHERE (in assoluto il film produttivamente e distributivamente più protetto della recente storia del cinema).

 

Tarantino, che esiste anche, se non esclusivamente grazie all’aiuto di Hellman (anima esecutiva di RESERVOIR DOGS nell’ormai sideralmente lontano 1992), non ha ricambiato il favore a un’opera che giganteggia rispetto ai deboli segnali di vita provenienti dal pianeta Coppola-2, satellite ancora alla ricerca di un’orbita sicura, che i più si ostinano a  rintracciare in un minimalismo-lounge dove la sottrazione necessaria, o il loosiano “Dio è nei particolari”, non è il risultato di un processo, ma di un’assunzione a priori di dogma stilistici basati su concavità espressive.

 

Il direttore della giuria è stato sgradevole e inesorabilmente prevaricatore anche nella gestione della conferenza stampa finale, impreziosità da un gesto di clamorosa volgarità, che nulla a che vedere con la iena sbiadita di 20 anni fa, quando la sua ex-ganza, che splendeva di radiosa sensualità da collegiale nerd, è stata altrettanto clamorosamente fischiata all’arrivo al Casinò.

  

 

 

Tarantino, il maggiore talento degli ultimi 15 anni, non ha il controllo su un’immagine pubblica assai simile ai pagliacci della pirotecnica BALADA di De La Iglesia (Leone per la Miglior Regia), ormai imploso nell’iperbole autocitazionistica dei propri comportamenti off-set, come se, nerd pure lui, non riuscisse a liberarsi del suo doppio circense che si aggira logorroicamente per le strade dei festival o sproloquia negli extra dei dvd di Eli Roth.

A 50 anni e dopo averci mostrato un notevole campionario cromatico di capelli tinti, è forse il caso di concentrarsi solo su 10, 1000 Inglourious Basterds e abbandonare la maschera del “palhaço triste”, la cui risata robotica ha risuonato per dieci giorni nei corridoi dell’Excelsior.

 

Dopo aver incontrato nel giro di poche ore Miike Takashi - ingiustamente trascurato per il bellissimo 13 ASSASSINS - e Monte Hellman, non possiamo fare a meno di registrare, con grande malinconia, l’eclissi irreversibile dell’uomo-Tarantino (che forse non è mai esistito).

 

Il problema è che questa entità-sempre-affabulante ha deciso le sorti di un grande festival, il penultimo di Marco Muller, inventandosi anche perle come il premio all’“esordiente” Mila Kunis (aka: “e mo’ come la mettiamo con la produzione di BLACK SWAN?”), attrice nota in tutto il mondo per THAT 70’s SHOW, serie-tv datata 1998-2006, e già protagonista in varie pellicole uscite dal 2002 in poi, AMERICAN PSYCHO-2 la meno sconosciuta tra esse.

 

Ma, si sa, anche Jasmin Trinca, a 30 anni, era un’imberbe esordiente…

 

 

Altra meraviglia della serata conclusiva del festival: una cerimonia di premiazione durata meno di mezz’ora, coi nomi fastforwardati da Isabella Ragonese (?), a dir poco fuori posto, e un palpabilissimo senso di colpa vissuto dall’intera commissione giudicante.

Potendo, Arriaga & co. avrebbero indossato in blocco i sunglasses dell’Uomo Sempreparlante, nascondendosi dietro maschere fumée e spesse coltri poste a protezione di una coscienza cinefila splittata in due.

 

Chiosa finale: Vincent Gallo, nonostante abbia optato per il morettiano “mi si nota di più se non vado”, non è mancato a nessuno e, anzi, è stato gloriosamente sfottuto da Jerzy Skolimowski, serenamente appropriatosi di due Leoni/Coppe finalmente meritate (ESSENTIAL KILLING).

 

è chiaro che il Vero Leone d’Oro 2010 è ROAD TO NOWHERE di Monte Hellman.

Il resto, fatta eccezione per Ariane Labed, Skolimowski e film di altre sezioni, conta poco, conta pochissimo.

 

Monte Hellman, ROAD TO NOWHERE