Coreografia di Wen Wei Wang
musica originale: Giorgio Magnanensi
luci: James Proudfoot
costumi: Kate Burrows
scene: James Proudfoot e Wen Wei Wang
con: Scott Augustine, Karissa Barry, Jung-Ah Chung, Josh Martin, David
Raymond,
Tiffany Tregarthen.
La lanterna rossa che viene
sollevata verso l'alto fino a scomparire, all' inizio di UNBOUND, sigla, con
la semplice ma perentoria tracciatura di una linea ascensionale, la nostra
entrata nell' universo espressivo di una Cina atemporale. Veniamo invitati a
seguire un percorso sinuoso attraverso la Tradizione, che alternerà
chiarezza espositiva del racconto ed eterea inafferabilità dell' astrazione.
Al centro, la materia trattata: può il bello considerarsi tale quando agisce
nell' ambito della coercizione?
La specifica declinazione è quella del dibattutissimo "piede di loto",
finezza estetica coatta prodotta nel corpo delle giovani cinesi (le
estremità degli arti inferiori), secondo una tradizione in uso dal X° al XX°
secolo.
Per deliziare nuovi e insaziabili (ricchi) pretendenti, le bambine future
concubine venivano abituate a tenere i piedi costretti in un intreccio di
bende che ne impedivano la crescita, rivolti com' erano verso la pianta, in
modo da preservarli nell' intatta bellezza della piccola dimensione, ma
anche rattrappirli nella sproporzione che causava ovvii impedimenti al
momento della deambulazione.
Simbolo e icona di UNBOUND è quindi la scarpetta rossa utilizzata per
supportare o simulare quel passo da gazzella in chi non aveva il dono del
"loto".
Gettata in scena all' inizio dello spettacolo, portata sul palmo di una mano
o vestita come un guanto, se non addirittura ghermita con i denti, la scarpa
è epitome di sopraffazione e violenza, ma anche di distinzione. Bello
assoluto e disvalore estetico, potere agito e subìto, segnaletica ambigua di
identità e gerarchia sessuale.
UNBOUND riesce a estendere tale approccio a ogni momento dell' invenzione
coreografica.
Dalle prime apparizioni del sestetto di ballerini sulla scena -a gruppi di
tre, gli uni piantati marzialmente a terra, gli altri a descrivere archi- la
coreografia di Wen Wei Wang comincia ad alternare a) figurazioni
raggruppate, come corpi intrecciati a riprodurre l'immagine del dragone
cinese, dove la spinta a terra e gli sviluppi estremi di contact non
liberano il corpo, ma lo avviluppano ("bound"), lo stringono, e b)
leggerissimi, improvvisi lampi di balletto, in cui il singolo danzatore
(soprattutto Karissa Barry) si svincola da ogni formazione costrittiva,
addirittura va sulle punte a piedi nudi, slancia gli arti inferiori e li
guarda fremere in aria come un velocissimo battere d' ali, o traccia rapide
diagonali in avanti e indietro con passettini che i piedi di loto mai
permetterebbero.
Ciò che è, quindi, straordinariamente complesso -come la "creatura" dotata
di molte gambe e braccia generata dal magma di corpi in stato di fusione- è
affascinante e repellente allo stesso grado.
Il rosso di intense luci si alterna al bianco della purezza, che taglia la
scena da sinistra o da destra, mentre la prima tonalità scende dall' alto
quando la temperatura erotico-drammatica sale. Simboli di piacere estetico e
di pena fisica (porpora), le scarpette accompagnano i passi dei danzatori:
quando tocca ai ballerini indossarle, creano un passo sghembo e impacciato,
siglando la parata del potere maschile messo in crisi dalla propria ybris,
quindi un fronte di 3/5 performers inciampa e cade in primissimo piano.
Dietro, per contrasto, le gazzelle prendono a volare, riscattando la propria
condizione d'inferiorità.
La luce bianca accompagna i momenti di danza femminile più vicina al
balletto, con o senza scarpette, arricchita da un' incredibile maestria nel
definire l'agilità di mani e piedi, mossi da polsi e caviglie snodati.
Quelli arrivano a formare immagini zoomorfe nel loro intreccio, memori dei
giochi di ombre cinesi.
Un attimo dopo le ballerine giacciono schiena a terra e ammirano le
appendici rosse (dotate di zeppa), pedalando con le gambe in aria, di nuovo
sottomesse all' effimero della loro bellezza. Ecco allora che, a mo' di
contrappasso, rialzatesi, non possono che inciampare anche loro. La
scarpetta aiuta i movimenti se intesa come riscatto, altrimenti si ribella a
chi ne rimane soggiogata, quasi avesse un' anima e un pensiero.
Eppure il lavoro di Wang non è mai letterale, pedante, anche quando, ad
esempio, le luci creano griglie costrittive in cui i danzatori sembrano
rimanere impigliati metaforicamente.
L' impressione generale è più che altro quella di una forte consapevolezza
avanguardistica, con fluida alternanza di nuclei coreografici che sembrano
citare i LA LA LA HUMAN STEPS, altri lampi di tango, club-dancing e arti
marziali, senza dimenticare un sottile retrogusto di tradizione cinese.
Incarnati questi nuclei in singoli ballerini o gruppi, vanno a incrociarsi
sulla scena, realizzando quindi in forma di mix di corpi danzanti il melting
pot stilistico cui s' accennava. Ciò che sorprende è la qualità "spaziale"
delle zone vuote, che appaiono coreografate o, almeno, disegnate con
consapevolezza formale e geometrica anche quando nessuno le occupa, quasi
fungessero da concavità necessaria alla contigua convessità dei corpi oppure
già si predisponessero ad accogliere il movimento -"formato"- dei ballerini
in avvicinamento...
Karissa Barry, con scarpette, salta a cavalcioni di Josh Martin,
intrecciando le gambe attorno alla vita del ballerino. Poi si attorciglia
attorno allo stesso Martin e a Scott Augustine, che le chiude gli occhi,
quindi dà uno strattone alle esili braccia e alle gambe della danzatrice.
David Raymond poggia le "slippers" rosse sul gomito, prima, e poi sulla
testa.
Più in generale, a movimenti simmetrici verso le ali del palco corrispondono
quasi sempre dei "contrappesi" costituiti da uno o più ballerini che vanno a
occupare il centro. Inseguono le zone color porpora nei momenti più cupi o
"erotici" e quelle segnate da spot chiari durante l' elevazione dello
spirito.
UNBOUND è bellezza allo stato assoluto, poiché eleva allo stato di
ragionamento astratto l' esposizione in prosa di una tradizione cinese
rendendola poesia; perché reinventa emozionalmente l'uso spaziale delle
luci, opera di James Proudfoot , capaci persino di riportare in vita, nelle
tonalità più scure, l' ancestralità di un passato lontano (quindi light
design come evocazione di una "temporalità altra") e conferisce una qualità
atmosferica alle musiche (anche "industrial") di Giorgio Magnanensi,
straordinarie in particolar modo nelle scene ad alta temperatura erotica.
"UN-BOUND" è dunque letteralmente bellezza "senza confini" o "sciolta" dalle
bende di ogni forzatura teorica.
Wang è riuscito nell' impresa di ribaltare centinaia di anni di
sopraffazione sessista in un' infinita teoria di gesti di pura leggiadria,
in cui ogni divisione e separazione vengono annullate. |