66.ma mostra del cinema LE INTERVISTE 2009 Venezia, 02/12 settembre 2009
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Xiaolu
Guo regista di ONCE UPON A TIME PROLETARIAN |
KINEMATRIX C’è stato un criterio di selezione dei personaggi che appaiono nel documentario o la scelta è stata puramente casuale? Xiaolu Guo è stato tutto improvvisato, perché penso che per un cinese nativo fare un film sui cinesi per strada sia molto naturale. Inoltre in Cina, per poter girare un documentario, non c’è bisogno di ottenere un’autorizzazione, quindi il tutto risulta molto personale e improvvisato. Prima di girare naturalmente abbiamo pensato alle categorie che volevamo intervistare: avevo bisogno di un contadino, un operaio, un funzionario, un miliardario e così via. Sapevo di aver bisogno di rappresentanti di tante classi differenti. Quando ti trovi nella campagna cinese, tutti sono contadini o operai, quindi non è assolutamente difficile trovarne, mentre i personaggi che hanno dato maggiori difficoltà sono stati i miliardari e gli impiegati di borsa, perché, per ovvie ragioni, non volevano essere ripresi, forse temendo di dire qualcosa di inappropriato riguardante la loro occupazione. Allo stesso modo, i lavoratori delle fabbriche, che rappresentano maggiormente il sistema socialista della Cina contemporanea, mi vedevano come una minaccia, e sentivano un mio atteggiamento critico nei loro confronti. Sebbene io non stessi manifestando nessun tipo di atteggiamento, erano molto preoccupati che la mia camera potesse portare un punto di vista critico sul sistema socialista.
Invece ha lasciato che parlassero liberamente. Non ha mai interferito con la sua voce durante i racconti di queste persone.
Perché non rientra nella mia idea di documentario. Per di più è una società totalmente diversa. Il documentario di Michael Moore, ad esempio [si riferisce a Capitalism, a Love Story, presentato in questi giorni come opera in concorso] mi ha fatto indignare per il modo in cui dice una verità generale, che conosciamo tutti, perché è un fatto americano. Ci sono due affermazioni in questo documentario: la prima è che il linguaggio cinematografico non sia mai esistito, e la seconda, che è una verità generale che già sappiamo, ovvero che la democrazia americana sia in crisi. Ma poi nel film afferma che, a differenza di Europa e Giappone, loro hanno la democrazia, e ho pensato che questo fosse davvero naïf, come l’America guardi agli altri e si permetta di giudicare altri Paesi, decidendo chi abbia o non abbia la democrazia. In Cina, gli intellettuali cinesi sono così cinici rispetto alla democrazia e alla libertà, da portare avanti i propri lavori artistici segretamente, alla stregua di un Bulgakov che scrive Maestro Margherita ai tempi di Stalin o Kafka che scrive i suoi romanzi nel suo tempo; l’intellettuale cinese è così disilluso e cinico o addirittura separato dalle caratteristiche di una società di massa. Quindi è molto diverso il modo di ritrarre il Paese, perché il mio film è proprio un ritratto della Cina, e un ritratto di come il capitalismo stia invadendo il Paese, la fede, la bellissima ideologia che avevamo fino a qualche anno fa, una bellissima ideologia che ancora abbiamo e che crede nel socialismo comunista, crede nel riunire la società, nell’amore tra la gente, non necessariamente tra una coppia. Questo film ritrae quello che la Cina è diventata negli ultimi vent’anni, perchè a causa del potere economico, della pressione economica dagli Stati Uniti come Occidente, la Cina si è trovata costretta ad aprirsi, a capitalizzare sé stessa al fine di porsi sullo stesso piano e poter discutere col resto del mondo. E questo ha portato con sè dei gravi problemi d’identità, le persone hanno dovuto modificare la propria identità: il contadino non è più contadino, perché deve diventare businessman. La Cina è stata fino a poco tempo fa un Paese basato sull’agricoltura, e improvvisamente tutti sono dovuti diventare buisnessman per capire che cos’è il denaro.
Il problema dell’identità è qualcosa a cui si è dimostrata molto sensibile. Lei stessa ha affermato “..ho giocato con la mia identità, ma allo stesso tempo ho realizzato di essere cinese. è stato un processo di creazione dell’identità, ma allo stesso tempo di fuga da questa identità.” Questo processo di creazione di un’identità personale individuale è qualcosa di nuovo per la cultura cinese, da un punto di vista storico-culturale. Le nuove generazioni stanno elaborando questo processo spontaneamente, come si nota dal suo documentario, ma le generazioni più vecchie si trovano un po’ spaesate in questo: si trovano a costruire una loro identità privata sulla base di un’educazione e un’intera vita basate sul concetto di collettività.
Penso che i giovani ora stiano vivendo in un mondo globale, soprattutto i giovani nati durante il one child policy. Nel mio documentario si vedono due tipi di giovani: il ragazzo che ancora fa il contadino e le ragazze intente a farsi unghie e capelli, tipico esempio di giovani che non hanno né fratelli né sorelle, adorate dai genitori e ricoperte di denaro, cresciute con i-pod e i-phone. Quando sarà ora, saranno probabilmente spedite in qualche ottima università come Harvard. Questi giovani vivono realmente in questa società che non ha più nessuna relazione con il passato.
Allo stesso tempo però vengono a contatto con i loro genitori che hanno un background totalmente differente.
Ma i loro genitori è probabile che siano già puri buisnessman che hanno tagliato completamente con il passato. E questo è il risultato di una Cina che è passata in pochissimo tempo dall’agricoltura alla modernità, in cui improvvisamente nessuno è più contadino: hai perso il tuo pezzo di terra e non esiste più relazione tra te e questa terra. Al suo posto si instaura una relazione tra te e una fabbrica, una qualche grossa compagnia, magari guidata da Americani o Tedeschi, e questa è un’identità, una relazione veramente fictional col tuo passato e con la tua storia, con la situazione attuale. In sostanza credo che ci sia una gran confusione e una grande incomprensione da parte dei giovani riguardo a quello che è la Cina, quella che è la sua e la nostra storia. Credo che per loro tutto sia uno scherzo, un fenomeno strano. La Rivoluzione culturale per loro è un qualcosa di strano. Fino al XIX secolo in Cina c’era un imperatore, non se ne rendono conto, è come se fosse una storia che appartiene a un altro Paese, come se fossero tutti personaggi di un film. Si è creato un vuoto di valori e di distacco dalla propria storia.
Si rimane piuttosto colpiti dal ragazzino che afferma, in un inglese impeccabile, di voler da grande un “famous artist”e dalla sua concezione di beautiful life, che coinciderebbe con una “vita senza restrizioni”. Quanto crede che questo tipo di pensiero possa essere positivo e quanto invece possa essere “pericoloso” per la società futura.
Credo che, in qualche modo, sia un pensiero tipico di chi è nato negli anni Novanta, che si trova ad essere al centro dell’attenzione per la propria famiglia, per cui il denaro non è più una loro scelta, e nemmeno lo stile di vita, poiché liberi di seguire qualsiasi stile di vita vogliano, che sia l’essere hippye o qualcos’altro. A questo punto la cosa più estrema e glamorous è essere un artista, che è un fatto riscontrabile anche in molti giovani in Occidente. Tuttavia il loro concetto di artista è quello di un artista pop, anzi un artista di arte pop, visto che il loro obiettivo non è tanto quello di fare arte ma di essere “rich and famous”, che non coincide esattamente con l’essere un artista. Ma non credo che questo sia una corrente di pensiero così diffusa. Credo sia solo limitato a un gruppo di ragazzini che hanno avuto un’educazione artistica, ma che magari quando cresceranno si scontreranno un’altra volta con l’imposizione economica e finiranno col diventare avvocati. è un po’ quello che vogliamo tutti da bambini, diventare famosi artisti o calciatori, ma poi chi lo diventa sul serio? E’ una sorta di propaganda dell’innocenza, un sogno nell’ombra. Nel contesto del film, è interessante mostrare che hanno questo interesse artistico, noncurante della questione “denaro”. E non posso nemmeno dare un’opinione su come sarà il futuro della Cina, perché io non sono un politico, sono solo una scrittrice e regista e come tale posso solo ritrarre la situazione attuale. Non esistono referenze valide per intuire come diventerà la Cina, perché non è la Russia dei soviet o la Jugoslavia che si è divisa ed è diventata Europa. Si tratta di una realtà molto complessa, di un popolo e di un governo che devono costruire da sé il proprio futuro, senza seguire nessun modello, tantomeno quello americano, e cosa accadrà nessuno lo sa.
(A questo punto si aggiunge all’intervista Philippe Ciompi, direttore del montaggio del documentario)
Come mai la scelta di intervallare i racconti dei diversi intervistati usando le riprese dei bambini che leggono dei fumetti di fronte alla telecamera?
Philippe Ciompi Non volevamo creare un documentario che andasse direttamente dalla A alla Z. La nostra intenzione era quella di mantenere una struttura di fondo, che permettesse di passare ad una storia ma di poter anche tornare indietro a riflettere, articolare la storia stessa in modo che ci fosse una varietà di percezioni. L’idea era quella di “entrare” in un personaggio, concentrarsi su di esso per poi interrompere e riportare il pubblico a qualcosa di più leggero, a scene in cui c’è meno azione e in cui si ha meno da riflettere. Una sorta di camere di decompressione per lo spettatore. Durante le riprese in Cina, mentre giravamo per la città, abbiamo incontrato questi gruppi di bambini che stavano leggendo delle storie.
Quindi vi siete imbattuti in questi bambini per pura casualità? Non erano contemplati nel progetto del documentario?
PC Sì sì, i bambini sono stati un “incidente di percorso”. Le riprese sono state tutte molto spontanee: andavamo in giro e quando vedevamo qualcosa che avrebbe potuto interessarci ci fermavamo per provare a riprenderlo. Un giorno eravamo per strada, dopo circa una settimana di riprese, e sono arrivati questi bambini urlanti e gioiosi. In Cina i bambini non sono timidi per niente. Volevano essere filmati, quindi abbiamo chiesto loro che cosa sapessero o volessero fare, dissero che avevano i libri e allora li lasciammo leggere. è stato divertente perché era impossibile organizzare i tempi con loro, era una totale confusione, infatti questa sensazione di caos la si vede anche nel film.
XG Le scene dei bambini sono importanti anche per i libri che stanno leggendo. In Cina non abbiamo letteratura per bambini, non avevamo Alice nel Paese delle Meraviglie, non abbiamo mai avuto storie per bambini. Quindi queste storie, che stavano leggendo i bambini, sono libri per bambini, che leggono a scuola, quindi sono pensati per far ridere e divertire, ma in realtà sono storie a sfondo politico, moralistiche. E questo in qualche modo combacia con l’ideale comunista di grande eroe nella storia, queste sono le storie che leggono i bambini in Cina, la loro Sirenetta.
PC Questo diventa parte della loro educazione, dei valori morali, penetra nelle loro personalità. Ad ogni modo, dopo le riprese dei bambini, abbiamo subito capito che avremmo voluto usarle come intervalli tra le varie storie. Questo anche perché il film è costruito su diverse linee, che vanno grosso modo dall’anziano alle nuove generazioni, dal più ricco al più povero, per questo volevamo una sferzata di energia giovanile per portare avanti il tutto, per proiettare al futuro. Anche perché molti dei capitoli del film sono venati di pessimismo: seppur non lamentandosi, molti intervistati ammettono le proprie difficoltà quotidiane, mentre noi volevamo sottolineare anche la volontà delle persone di guardare oltre, di andare avanti, e siamo riusciti a farlo attraverso la pura energia del caos dei bambini. Le storie stesse che questi bambini leggono offrono uno spunto di riflessione, essendo storielle morali. Quello che gli intervistati dicono, riguardo ideologia, moralità etc etc. è comunque filtrato dal loro pensiero, mentre le storie dei libri ci vengono presentate così, nero su bianco.
Un altro aspetto interessante che si percepisce in tutto il documentario, è la speranza. Molti degli intervistati, soprattutto i più giovani, dalle ragazze che lavorano in un hotel di lusso, ai ragazzini a scuola, parlano della loro attuale vita come di una fase di passaggio, che quasi disprezzano, ma comunque convinti di poter abbandonare tutto molto presto per iniziare una nuova vita più felice.
XG èun bene che lo abbia notato. Altri mi hanno fatto notare come il mio documentario sia velato da una forte malinconia, carico di negatività. Il fatto è che stiamo vivendo in un’epoca post-industriale, nel caso della Cina si parla ancora di epoca post-Mao, per quanto si dica che è già in un’era di puro capitalismo. Io credo che la differenza tra questo film e gli altri film sulla pressione del capitalismo, sta nel fatto che la gente in Cina, soprattutto le classi più basse, hanno un forte desiderio di vivere piuttosto che di morire. Mentre in molti altri film europei, il capitalismo si trasmette, soprattutto nei giovani, come un desiderio di morire, di commettere suicidio, a specchio di una reale depressione interna. E questo va assolutamente contro l’idea che io volevo trasmettere, perché la povera gente del mio film ha invece un forte desiderio di vivere.
PC C’è questa forza di reagire, di fare qualcosa per cambiare, senza rimanere passivi.
XG Il modo stesso di filmare i personaggi dimostra la volontà di dar loro voce, soprattutto a quelle persone della strada, come la donna che lavora alla stazione degli autobus: li ho fatti parlare senza interferire con la mia voce o i miei commenti. Era come se loro dessero voce a me. Quando non volevano parlare, indietreggiavamo con la telecamera, stando piuttosto in disparte, quindi c’erano questi lunghi momenti di “contemplazione” in cui loro fissavano la telecamera in silenzio o guardavano altrove. Abbiamo registrato tutto di questi momenti. Nella fase di editing e montaggio finale, era importante far venir fuori questo essere vicini a loro, questo farli parlare liberamente e raccogliere i loro sogni o sofferenze. Abbiamo astratto i personaggi dal contesto, l’abbiamo separato, per cogliere la situazione in modo esistenziale, per poi contemplare li nel paesaggio, la stazione degli autobus o i campi. Dare spazio all’ambiente, al paesaggio a cui appartengono è fondamentale e abbiamo mantenuto questo nesso durante l’editing.
PC Se si pone un personaggio nel suo ambiente, lo si sente più vicino. Già prima che dica qualcosa, ci siamo già fatti un’idea. Si crea una sorta di relazione intima con quella persona.
XG Non ho mai avuto interesse nel fare un documentario di tipo reportage tv. Questo documentario risulta in effetti piuttosto astratto, quasi poetico, contemplativo, di osservazione. Per questo abbiamo fatto queste ampie riprese, per porre il personaggio nel suo paesaggio, al luogo a cui appartiene. Il paesaggio sociale è la sua identità. Quando vedi direttamente da dove questi personaggi provengono, li capisci meglio: la donna manager del documentario, è stata ripresa con alle spalle questa grande discarica, nella confusione di camion che vanno avanti e indietro, durante l’edificazione, in quell’area, di uno dei suoi hotel. L’ambiente che vediamo alle sue spalle, rappresenta una metafora per il background della donna: quel terreno ora in costruzione, raso al suolo, prima era un terreno agricolo. Questo episodio è molto rappresentativo del linguaggio del film: dimostra come il paesaggio socio-politico si rifletta sull’individuo, e come l’individuo a sua volta si relazioni ad esso, laddove invece la maggior parte dei documentari non fa questo, ma piuttosto si focalizza su close-up estremi sul personaggio e sul suo racconto, montando scene simili l’una sull’altra.
PC Lo spazio che noi lasciamo nelle nostre riprese permette anche una maggiore emotività. Quello stesso spazio può essere riempito con le proprie emozioni.
XG I documentari canonici sono troppo funzionali, l’aspetto socio-politico va al di la di tutto, puntano più sul contenuto che sulla forma. Per noi invece è ugualmente importante lo stile, l’aspetto del film. Mi riferisco a Michael Moore ma come a tutti gli altri documentari funzionali, che si affidano a certi clichè per trarre delle conclusioni, in fin dei conti scontate: nel suo caso ad esempio, malgrado per il 90% del film parli dello schifo che c’è in America, alla fine afferma che è il Paese più libero e democratico del mondo. Michael Moore è sicuramente un fenomeno del momento, perché da voce al mainstream odierno, quindi è naturale che diventi un fenomeno e che riscuota consensi di pubblico. Il nostro modo di fare un documentario è totalmente diverso.
PC Ma in realtà non è proprio possibile fare un paragone. Si tratta semplicemente di due cose totalmente diverse. Noi abbiamo dato voce alla povera gente, agli strati più bassi. Il suo è costruito secondo le regole di un film: ha delle sequenze ben scandite, intervalli musicali, c’è tutto un ritmo regolare e costruito, che però non da voce ai personaggi come abbiamo fatto noi. Non da spazio allo spettatore.
XG Ci tenevo solo a dire che sono molto contrariata, non tanto per il suo documentario, ma per il fatto che certi giornalisti siano venuti a dirmi “Entrambi avete girato un documentario sul capitalismo, cosa ne pensa?”. E invece basta guardarli per capire che sono due cose totalmente diverse!
Lei è molto legata al suo Paese e il suo essere cinese è addirittura l’elemento fondamentale in tutte le sue opere, film e libri. Tuttavia vive all’estero da molti anni ormai. Questo suo analizzare costantemente la Cina dall’esterno, potrebbe essere un modo per sentirsi più vicina al Paese che ama e in un certo senso un’espiazione per non essere lì?
XG Non c’è una relazione tra le due cose. Se qualcuno mi offrisse una casa a Parigi, vivrei tra Parigi e la Cina. Sono semplicemente troppo irrequieta per vivere in un posto solo, mi annoio e divento insofferente a vivere sempre nello stesso Paese. Ho passato gli ultimi sei anni a girare in Europa da una città all’altra, ma allo stesso tempo sono cinese, ho una mia casa a Pechino e parecchio tempo dell’anno in Cina. Non voglio stare interamente in Europa, non è un luogo che mi appartiene. Ciononostante, in Europa ho avuto l’occasione di conoscere un sacco di persone alla Scuola di Cinema, e qui ho a disposizione finanziamenti e postproduzione. Contemporaneamente, in Cina sono una regista underground. è in Cina che vivo e raccolgo tutto il materiale per le mie storie, mentre l’Europa rappresenta il luogo dove finire il lavoro, fare l’editing e distribuire. Di fatto però non posso mostrare i miei film in Cina, non potrei farlo nemmeno in America: l’Europa è il solo e unico luogo possibile per distribuirli, per comunicare e instaurare un dialogo. Quindi non si tratta propriamente di una scelta, è quasi un “esilio” forzato. Se, come artista, non puoi mostrare i tuoi lavori nel tuo Paese, cosa puoi fare se non uscire fuori? Non ho bisogno di vivere in Cina per amarla, come non ho bisogno di vivere con i miei genitori per affermare che li amo. La società è ormai così mista e internazionale che non mi dispiace vivere a Londra, a Parigi o New York. Anzi vivendo in queste città, ho creato delle storie che, tutto sommato, trattano l’esistenza umana, non prettamente l’esistenza cinese. Non sono nazionalista, non sono legata a questo concetto di tema nazionale, ma piuttosto all’esistenza umana attraverso un soggetto particolare. Potrei scrivere della Turchia se per caso mi innamorassi di un uomo turco. Si tratta di una propria relazione interna verso le emozioni che provi e che vuoi analizzare, di una corrispondenza tra il proprio cuore e quella particolare situazione. Così come credo che Ang Lee faccia dei film americani molto meglio di quanto facciano dei registi americani, ma allo stesso tempo lui è molto taiwanese. Il fatto che io abbia trattato il tema Cina finora è perché è la cultura che conosco meglio, quindi mi viene spontaneo e naturale, anche più comodo, ritrarre qualcosa che conosco bene.
Un’ultima domanda riguardo la colonna sonora del film: una perfetta escalation dai ritmi severi degli inni nazionalistici in apertura, ai toni melanconici delle interviste, per concludere con una sferzata di grintoso e sano punk rock cinese.
XG Sì il film apre con una canzone di un cantante afroamericano comunista degli anni Cinquanta che canta questa canzone, bellissima, ma dal tono quasi funebre, sul comunismo che sta per morire. Il punto è che non è veramente di questo che parla il film, ma al contrario proprio della speranza, come abbiamo detto prima, quindi, anche se sarebbe stato bello terminare con un’altra sua canzone, avevamo bisogno proprio di un giovane punk cinese per dare un calcio a questa aria funebre e negativa. Allora abbiamo pensato di inserire un pezzo dei Cold Blooded Animal. Il frontman del gruppo è Xie Tian Xiao, un poeta, e tutti i suoi testi sono molto forti e politici, ritrovando una vena punk nell’ideologia di Mao.
PC Ed è fantastico notare come le due canzoni vadano perfettamente in accordo. All’inizio è molto semplice, abbiamo questo primo pezzo molto pomposo come baluardo dell’orgoglio comunista, che poi affonda, e infine si rigenera con l’energia del pezzo punk.
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66.ma mostra le interviste 2009 Venezia, 02/12 settembre 2009
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