66.ma mostra del cinema LE INTERVISTE 2009 Venezia, 02/12 settembre 2009
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Shinya Tsukamoto regista di Tetsuo the bullet man |
Non ha ceduto neppure alle lusinghe di Tarantino per la creazione del suo terzo episodio di Tetsuo. Sebbene si tratti di una versione americana, la produzione è totalmente giapponese, se non per parte del cast (il protagonista, Eric Bossick, americano residente a Tokyo, giapponese impeccabile, alla sua prima esperienza sul grande schermo), e la lingua utilizzata. Sorprendentemente, Tetsuo the Bullet Man nasce da una collaborazione tra la major nipponica Asmik-Ace (giapponese sì, ma tra le più esterofile) e l’indipendentissima Kaijyū Theatre fondata da Tsukamoto stesso ai suoi esordi. Un accoppiata piuttosto bizzarra che fa da vessillo per una pacifica collaborazione tra grandi e piccoli dell’industria cinematografica. A fare da moderatore tra i due, il pacato Tsukamoto, che dichiara di aver ponderato a lungo il progetto del nuovo Tetsuo, per poter esprimere al meglio le novità, pur rimanendo aderenti a quella che è la sua idea originale di vent’anni fa. Una costante di tutti gli episodi di Tetsuo è anche stavolta la presenza della città di Tokyo e delle sue archittetture, quasi stritolanti attorno ai personaggi, sostiene la moderatrice Roberta Novelli. Alla domanda su come stia vivendo le trasformazioni di Tokyo, ritenuta la città cyber punk per eccellenza, il regista risponde che la crescita spasmodica della città dagli anni Sessanta in avanti, ha portato a cambiare la considerazione del concetto e dell’uso di violenza anche nei film: laddove fino a vent’anni fa l’uso della violenza sulla pellicola era del tutto irreale, distante da una realtà pacifica come quella della Tokyo dell’epoca, oggi è più opportuno usare la violenza con più cautela, perché più reale e più vicina alla quotidianità di Tokyo. La città ha visto allargare, assieme al suo perimetro, anche la brutalità e la paura, elementi che prima erano solo fiction. è proprio per alleviare i toni della violenza, per sdrammatizzarli, che il regista porta nei sui lavori anche una vena di poesia, così come appare in Vital (2004). All’accusa che i suoi film siano troppo carichi di violenza, rimane sorpreso (anche se è difficile scorgere una evidente espressione di stupore sul suo volto imperturbabile!) e, appoggiato dalla moderatrice Novelli, sostiene che il giudizio su ciò che è violento o meno sia piuttosto relativo, e che spesso a uno sguardo occidentale risulti violento qualcosa che in realtà non è stato concepito come tale: siamo noi stessi a vedere la violenza. Non si aspettava che Tetsuo the Bullet Man rientrasse tra i film in concorso alla 66esima Mostra del Cinema di Venezia. Seppur onorato dell’invito (da qualche anno è ormai abituè dell’evento lidense), lui stesso è stato colpito e ha trovato persino bizzarro che un film cyber punk come Tetsuo potesse essere in competizione, ma col consueto ben celato stupore, si gode l’accoglienza veneziana.
Kinematrix Perché ha deciso, dopo vent’anni, di ritornare su Tetsuo? E perché riproporlo in una versione americana?
Shinya Tsukamoto Dopo che avevo dato alla luce il secondo Tetsuo, che è stato all’incirca diciassette anni fa, sono stato contattato da dei produttori americani che mi hanno proposto di farne una versione americana ed ero molto interessato all’idea, solo che è mi ci è voluto fin adesso per ideare il film in modo tale da manifestare completamente il mio progetto. Affinché fosse una versione americana, ho deciso di scritturare un attore americano, e lo stesso vale per la lingua usata nel film
Perché il titolo Bullet Man?
Non ho potuto usare la traduzione letterale di Tetsuo, ovvero Iron Man perché esiste già un film americano con questo nome. Si era anche parlato di creare un film in cui Tetsuo volasse, si parla all’incirca di una decina di anni fa, ma quello che volevo non era un Tetsuo volante come in Robocop, l’idea che avevo era quella di un Tetsuo come una pallottola che sferza l’aria.
Il personaggio di Anthony si presenta con le stesse caratteristiche del tipico salaryman giapponese: l’incomunicabilità anche di fronte a situazioni estreme e paradossali e il trattenere al massimo le emozioni fino a esplodere in conseguenze catastrofiche. Non crede che per rendere questo film più “americano” avrebbe dovuto dare a Anthony una personalità più tipicamente americana?
è una cosa a cui ho pensato molto durante la creazione del film, e ne ho discusso molto con Eric Bossick, che è l’interprete di Tetsuo. Ho chiesto a lui se certi atteggiamenti fossero appropriati ad un personaggio americano, e lui ha confermato che fossero reazioni plausibili per un americano che vive in Giappone, specialmente nel caso di un businessman come Anthony. Se lavori per lungo tempo in Giappone, specialmente a Tokyo, diventi molto simile ad un salaryman giapponese, entri nel circuito del lavoratore medio.
Anche se Tetsuo I e II (Body Hammer) sono sempre concentrati sul tema carne-metallo, a fare da sfondo c’era sempre un intenso dramma umano: nel primo tra l’uomo e la donna, nel secondo è più familiare con la presenza del bambino, il tutto sempre con un’intersezione tra l’uomo e la città, quasi una sfida costante tra l’uomo e la città. In Tetsuo the Bullet Man invece, sembra che il focus sia incentrato di più sulla situazione familiare, piuttosto che sulla città. Possiamo attribuire questa scelta al fatto che si tratti di una versione americana di Tetsuo o c’è un altro motivo che l’ha spinta a questa scelta?
Parzialmente è per il fatto che volevo fare un film americano. La figura del padre di Anthony è un po’ inspirata alla figura di Harrison Ford in Blade Runner, che sposa un’andoroide. Allo stesso modo, il mio desiderio era quello di seguire un lignaggio familiare, quindi creare la storia di Anthony a vent’anni dopo l’incontro tra un umano e un’androide, tra umanità e tecnologia.
Anche questa volta vediamo la figura di una donna apparentemente remissiva e poco reattiva, ma che in ultima analisi sa dar voce ed esprimere le proprie frustrazione senza che la rabbia repressa e il dolore si tramutino in un mostro di metallo. Anche in A Snake of June la donna alla fine decide di lasciarsi andare ai propri istinti. Questo perché crede che la donna sia realmente in grado di trasmettere con meno problemi il proprio io o crede che potrebbe esistere anche un Tetsuo al femminile?
A dire la verità non ho mai pensato alla possibilità di un Tetsu-ko, una donna Tetsuo! Forse proprio perché credo che le donne siano in generale più forti: si comportano come se fossero deboli, così noi, come uomini, cerchiamo di proteggerle, ma anche sotto questa copertura di protezione sembrano essere molto forti. Ho sempre la sensazione che le donne abbiano i piedi ben saldi a terra, mentre noi uomini siamo come delle piccole mosche che volano attorno a queste donne. Io ho questa grande devozione e sensazione di rispetto per le donne, e forse per questo le donne nei miei film risultano così.
Il tema di base del film è la mutazione del corpo umano, la tecnologia che entra nel corpo. Pensa che la sensibilità di molti artisti giapponesi verso questa tematica, possa nascere dalla storia stessa del Giappone, segnata dalla tragedia radioattiva della bomba atomica?
C’è sicuramente un interesse in questa direzione, ma in termini di guerra sento che i giapponesi sono lontani da quei ricordi. Coloro che l’hanno vissuta stanno pian piano scomparendo, e le nuove generazioni si stanno allontanando dalle memorie di guerra e questo mi fa un po’ paura. Non è tanto il fatto che ci sia stata una guerra che spinge il protagonista a diventare metallo, quanto quello delle persone che vivono nelle città e stanno diventando loro stessi parte di essa.
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66.ma mostra le interviste 2009 Venezia, 02/12 settembre 2009
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