verso la 66.ma mostra
rifare mondi

Venezia, 02/12 settembre 2009

 

di  Gabriele FRANCIONI

A. 1979,  Khomeini al potere

1989, il sangue a Tienanmen

2009, Barack Obama, Grado Zero della Storia

 

I nodi, si sa, prima o poi vengono al pettine.

Oggi, nel centenario del Manifesto Futurista, il 2009 sembra aprirsi al nuovo decennio del terzo millennio con l’indomabile forza, sempre ritornante, di rinascenti avanguardie, che seguono inevitabilmente cicliche crisi politico-economiche.

Speriamo che il Cinema sappia riconoscere ed esprimere lo Zeitgeist che ci gira intorno.

Le stesse cose, si sa, ritornano.

Lo sosteneva anche Robert Musil.

 

Il ritorno di qualcosa può esserne anche la fine: un nuovo acme che chiude il cerchio di un’epoca iniziata con i crismi del cambiamento epocale.

La fuga di Hu Jintao dall’imbarazzante e velocissimo G8 dell’Aquila sa tanto di fine di un’era o, almeno, di una fase d’ininterrotta-indiscussa-implacabile ascesa di un nuovo sistema nazional-continentale impostosi alla velocità della luce, lasciando sul campo un numero infinito di corpi reali, in Tibet come nella regione dello Xinjiang.

O come in Piazza Tienanmen.

 

I tempi fisiologici dei regimi politici alle soglie tra democrazia limitata e dittatura sono, in epoca moderna, quasi sempre gli stessi.

Anche le elezioni vinte da Mousavi contro Ahmadinejad, e i drammatici scontri ancora in atto, suonano forse campane a morto per l’Iran a conduzione politica tardo-integralista, che, parole di Slavoj Zizek, è specchio di un atteggiamento “postdemocratico” assai diffuso in un mondo sempre più diviso tra derive di solo immaginate “reti sociali” o comunità virtuali, da una parte, e sangue che scorre per le strade dall’altra.

Come altri osservatori internazionali, a essere precisi, Zizek fa anche un altro esempio di nazione a rischio latente di democrazia…

 

L’immagine (stupefacente) dello spirito dei tempi, sintetizzata, quasi iconizzata in un corpo solo, è naturalmente quella di Barack Obama.

Il pianeta è al tappeto, la finanza creativo/virtuale degli ultimi quindici anni ha ridotto ai minimi termini il potere d’acquisto non più dell’80 % della popolazione mondiale (quella che deve accontentarsi del 20% dei beni prodotti), ma del 95% della stessa!

Nel giro di pochi mesi siamo passati dalle celebrazioni mediatiche della Cina alle Olimpiadi, che sapevamo finta e televisiva,  alla decisa ribellione della minoranza Uyghur nello Xinjiang e dal fantasma tragicomico di George W. Bush al veni-vidi-vici obamiano.

Tutto è cambiato non solo dai tempi del costosissimo spettacolo - ancora una volta televisivo (o “solo televisivo”?) - dello sbarco lunare (1969), ma dall’estate scorsa.

No, anzi: appena da novembre.

 

Obama, il messia nero tanto atteso, smista e cambia in pochi mesi le carte in gioco, universalizzando i problemi che ha in casa, come per le politiche energetiche e la riconversione dell’industria automobilistica.

Mentre, cioè, gli altri leader mondiali ancora spacciano all’angolo di strada la versione virtual/mediatizzata e locale di una crisi globale ritenuta “risolvibile”, il presidente americano FA, PROGETTA, agisce come mai si era visto, a Washington, negli ultimi 10-15 anni.

O forse negli ultimi 50, se escludiamo il Camp David di Carter.

 

La nazione della finzione cinematografica, capace di inventarsi il miglior colpo di scena socio-politico del secolo, se non del millennio,  si sgancia di fatto da realtà ancorate alla contro-rappresentazione del Vero (Cina, Italia).

L’avremmo mai immaginato, anche solo l’ anno scorso?

 

In ciò sta la premessa necessaria al cinema che vedremo alla 66° Mostra del Cinema di Venezia: esiste già un cinema americano obamiano? Serve più, ai registi statunitensi, stare all’opposizione o ai posti di comando? La rinascita documentaristica ha già trovato una sponda nel “fare” del Presidente o vede diminuire l’importanza del proprio ruolo di denuncia?

 

E, per il resto delle cinematografie nazionali: si continua a sponsorizzare un cinema “di regime”, o quantomeno in fuga dalla realtà (Cina, Taiwan, Hong Kong), o i fuochi d’artificio pre-olimpici si stanno spegnendo nel bagno di sangue di Urumqi ?

L’India ci è finalmente diventata comprensibile, dietro l’ipertrofia produttiva  bollywoodiana e la ben più tangibile ipertrofia economico-finanziaria di Bangalore?

 

Gli Stati Uniti degli ultimi sei mesi sono neorealismo puro,  mentre altrove vediamo solo effetti speciali ineffettuali.

 

Lo status quo impone a tutti, come minimo,  un ripensamento dell’uso compulsivo della computer graphic nel cinema blockbusteriano e, grazie anche all’infinito sciopero degli sceneggiatori, una seria meditazione su quali debbano essere le storie da raccontare durante la Nuova Grande Recessione.

 

2009 come 1929, quindi: come ci si posiziona a riguardo?

 

All’indomani delle Twin Towers il problema di una rifondazione etico-tematico-stilistica si poneva quasi esclusivamente per gli Usa, ma produsse in realtà solo pochi anni di reale elaborazione del lutto.

 

Oggi la bomba è scoppiata in casa di tutti e nessuno può ragionevolmente sottrarsi a una rappresentazione dei nuovi scenari.

 

L’atteggiamento critico di Kinematrix sarà orientato a misurare la distanza non solo tra la Crisi e il Cinema, ma soprattutto tra i film americani e quelli prodotti in Cina e India (se ne vedremo qualcuno) e, come è logico che sia, nell’Europa sempre più radicalizzata su posizioni d’intolleranza etnica.

Cosa proporrà l’Inghilterra, che ha cominciato a votare un partito filo-nazista?

 

 

B-Beyond cinema: arti visivo-performative vs. celluloide

 

“Nel mio lavoro una cosa nasce dall’altra. In un certo senso è come se fosse un fare ininterrotto, che non conosce suture neanche da un linguaggio all’ altro. I disegni stimolano i testi, i testi evolvono nelle scene dei film e così via…” (Rebecca Horn).

 

Il cinema mondiale non deve affrontare solo la sfida di cambiamenti epocali che esigono un’immediata “rappresentazione” sotto forma d’immagini, ma anche la rapida crescita di una nuova estetica multimediale sviluppatasi in ambiti diversi come le arti visive, la fotografia, la videoarte, la danza e il teatro di ricerca.

Il moderno artista visivo deve saper disegnare, assemblare, strutturare performance e girare video o film, che verranno presentati contemporaneamente e contemporaneamente fruiti.

Il regista teatrale e il coreografo utilizzano ormai stabilmente videoproiezioni e riferimenti alla cinematografica.

Il capolavoro ANTIGONE di Lemming Teatro non può fare a meno di certe oscurità tipicamente horror, della voce fuori-campo, di un cromatismo esplicito (l’anguria), ma supera l’offerta filmica con il senso dell’olfatto e la fisicità degli attori mescolati al pubblico.

 

Insomma, ruba al cinema scavalcandolo.

 

Massimo Bartolini propone a New York (2008) un’installazione mista con disegni e video “rotanti”.

William Kentridge e Rebecca Horn vengono ospitati dalla Fenice (2008 e 2009), che offre loro l’occasione di proiettare sullo schermo frangifuoco del teatro gli ultimi lavori in video.

Per non citare i casi eclatanti di Julian Schnabel o dell’ovvio Barney, che appena tocca una macchina da presa riesce a produrre fascinazioni sconosciute ai filmaker di professione.

 

L’artista visivo diventa facilmente regista, mentre l’inverso non accade o solo in rarissime occasioni.

Semmai gli altri media vengono inglobati ed esaltati nella loro specificità all’interno di film-contenitori (come in  “Parla con lei” di Almodovar, dove Pina Bausch e Caetano Veloso non espongono altro che se stessi).

 

Questo non significa che non sia più possibile l’osmosi tra forme espressive (non così) diverse, bensì che la necessità di aggrapparsi agli incassi al botteghino per cercare di chiudere decentemente un’era - quella del film su pellicola- innesca un processo di allontanamento da ogni sperimentazione e un appiattimento su codici narrativi considerati sicuri, sino alle forme di autodifesa estrema, come il riciclaggio compulsivo di cartoon-stories, il ricorso ossessivo al remake, la trasposizione seriale di serie-tv di culto, considerate non a rischio di fallimento commerciale.

E non parliamo solo di cinema made in Usa: basti il caso del Giappone, dove si sprecano i derivati dell’universo-manga.

 

Più in generale, dopo un solo secolo di vita, il cinema rinuncia alla propria peculiarità (riassumere le altre forme espressive) e corre verso derive dalle quali o non si ritorna più, o si rinasce con forza.

 

In un’epoca che ha smaterializzato il supporto “pellicola”, ormai a un passo dalla scomparsa definitiva,  e che vedrà l’entrata in scena del film trasmesso via internet e proiettato sugli schermi dei multisala, è evidente che, per sopravvivere, ci si ripieghi sulle poche certezze rimaste: storie, storie e solo storie.

 

Vigileremo, noi di Kinematrix, sull’ossessione narrativa dell’Ultimo Cinema di Cellulosa e sui Nuovi Eretici Visionari che vorremmo raccontare.

 

 

C- 6/8: il tempo di Marco Muller

 

Intanto, noi ci teniamo stretto Marco Muller, il Direttore dei record e della rinascita della Mostra, dei Cinema Segreti e del Lontano Oriente, ma anche colui che ha avuto il coraggio di portare al Lido le poche, straordinarie micro-rivoluzioni di questi ultimi anni - Cannes inclusa, sia ben chiaro - concentrate in una manciata di titoli e nomi (INLAND EMPIRE, REDACTED, Lav Diaz, DRAWING RESTRAINT).

 

Il suo tempo musicale è ora di 6/8, o ¾, se volete, poiché siamo a metà del secondo mandato quadriennale.

Considerati gli inizi di vera improvvisazione - l’incarico reso noto nell’aprile del 2004 - non avremmo potuto aspettarci nulla di meglio di un’era destinata a rimanere nella storia della Biennale Cinema.

Potendolo fare, scansando cioè le tentazioni che arriveranno da…Cannes(?), Toronto (?), Macao (?), vorremmo rendere senza fine il periodo di reggenza mulleriana, che ha avuto anche il significativo merito di attraversare tre diverse legislature senza doversi leccare ferite di sorta.

Arginata Cannes, contenuto il festival di Toronto, annientata Roma, che si ripiega su stessa come il suo direttore, l’eternauta Rondi, e convinto Moretti a più miti propositi, Muller ha forse solo bisogno d’inventarsi nuovi stimoli.

 

Non che non sia gradita, ad esempio, la ri-presenza di Ang Lee, stavolta direttore di Giuria.

Quello che ci preoccupa un poco, in attesa di possibili sorprese il giorno della presentazione alla stampa del programma definitivo, è l’eredità della Festa di Roma, ovvero la necessità di trovare comunque spazio al cinema prodotto in Italia.

Occorre anche dire, conoscendone le sottili strategie, che ogni fallimento dei film italiani portati al Lido da MM dal 2004 a oggi è servito a rafforzare la comune e condivisa opinione: è inutile tentare di salvare un paziente in coma da tempo immemore, come è senza senso sforzarsi di produrre nuove analisi sulla cancrena produttiva romana.

Tra cinque anni la capitale del cinema sarà Torino e già ora i centri più dinamici e creativi si trovano in Piemonte/ Friuli/ Puglia.

 

Period.

Punto/fine della storia.

 

Il Direttore vuol far capire, con Paolo Franchi e Marra, Tornatore e Placido,  che il risultato finale non cambia, pur mutando i fattori in campo.

Le sue sono solo sane provocazioni.

Andando poi a frugare nelle sezioni minori, troviamo comunque piccoli dignitosi lavori come LA RAGAZZA DEL LAGO o IL PRANZO DI FERRAGOSTO.

Non potendo avere al Lido gli unici capolavori dell’ultimo quinquennio, GOMORRA-IL DIVO-VINCERE,  è corretta la scelta di mettere in scena l’abisso nel quale si è gettato e desidera rimanere l’Unidentified Object che qualcuno si ostina a chiamare “cinema italiano”.

Andiamo a fare la conta dei premi ricevuti da queste tre pellicole:  tale messe di riconoscimenti è un pessimo sintomo dell’assoluta mancanza di competizione.

 

 

Gestione della “comunicazione”

 

Sul piano della gestione dei rapporti con la stampa e i media,  invece, per quanto piccolo possa sembrare, anche il gesto di far fuori l’imbarazzante daily di “Ciak”  e di sostituirlo con “Variety” va applaudito.

Inizieremo finalmente a leggerlo, invece di andare direttamente alla pagina che suggeriva i party più cool

 

 

D- Kinematrix: 10 anni al Lido

 

Dal primo accredito stampa nel lontano 2000, Kinematrix è arrivata al suo decimo anno di Mostra del Cinema, animata da sempre maggiore curiosità e desiderio di sperimentare, nel suo piccolo, senza dare nulla per scontato.

Per il 2010 prepariamo un’anomala squadra d’inviati: una coreografa, un regista di teatro, un musicista e un artista visivo si affiancheranno agli inviati tradizionali.

Verrà ripristinato il Kinematrix Film Award (già assegnato nel 2002  a “Snake of June”, di Shinja Tsukamoto), con altra denominazione e sponsor esterno.

In questo 2009,  anno della Biennale Arte regina, Kinematrix ha raccontato i percorsi eretici di Danza-Teatro - Musica e delle Arti Visive, sognando una futura saldatura di alcuni settori ora separati e non solo per favorire una più equa (re)distribuzione dei finanziamenti statali.

Arriviamo al Lido, insomma, con grandi aspettative, ma qualche sospetto, perché siamo convinti che la penuria di mezzi (si vedano Musica e Danza) stimoli la ricerca.

Luca Francesconi e Ismael Ivo hanno segnato la strada, Birnbaum ha fatto meglio di quanto si pensasse, la città intera si è raccolta attorno a una miriade di eventi come non se ne vedevano da tempo: è chiaro che,  potendo disporre di cospicui finanziamenti, neanche paragonabili con quelli degli altri settori, Muller non può che cercare di stare al livello dei suoi colleghi Direttori, pensa un declassamento che non ci auguriamo in nessun modo.

Se gli altri organizzano Laboratori capaci da soli di fornire materiale umano e intellettuale per le successive edizioni di Sanza-Musica-Teatro; se Biennale Arte riapre la biblioteca dell’Asac, inaugura la cafeteria di Rehberger (anche premiata col Leone d’oro) e lo spazio Educational di Bartolini, è giunta l’ora delle decisioni irrevocabili anche per M.M.:

 

1- il Nuovo Palazzo del Cinema deve essere il segnale visivo di una meritata riconferma: visti i tempi di realizzazione di Punta della Dogana, non pazienteremo più di 2-3 anni;

2- le troppo spesso evocate “attività permanenti” sono rimaste finora lettera morta. Ora non ci sono più alibi: qualcuno si sprema le meningi e cominci a dire in cosa dovrebbero consistere.

 

Forse Muller dovrebbe circondarsi di qualche nome nuovo e, a parte la solita commissione di selezionatori (nulla di nuovo, sempre gli stessi nomi,  lontani anni luce dalla capacità di dialogo con la stampa dei loro colleghi di D-M-T e Arti Visive), dovrebbe organizzare una squadra che lavori a Venezia per i restanti 11 mesi, organizzando retrospettive al Lido, nel Padiglione delle Esposizioni, ormai pronto per accogliere iniziative di ogni tipo nella lunghissima pausa tra due consecutive Biennali Arti, all’Arsenale.

Gli manca una figura di raccordo e di sintesi del livello di Angela Vettese, gli manca la volontà sinergica che coinvolga enti e Fondazioni come la Buziol, che pure agisce in ambito multimediale: gli manca, forse, la volontà.

 

Biennale Cinema è troppo legata a dinamiche di mercato ed equilibrismi (geo)politici che sanno di preistoria e non può sganciarsi dal fardello-Roma, così difficile da lasciar andare alla deriva.

 

Venezia-città-di-Cultura, però, si sta muovendo e chiama a gran voce una Mostra rinnovata, più “d’Arte cinematografica” e non di prodotti usa-e-getta.

Una Mostra al livello delle altre Biennali.

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Venezia, 02/12 settembre 2009