Un giovane ex-soldato
israeliano si racconta davanti alla cinepresa di Avi Mograbi. Racconta di
quando lui e altri commilitoni compirono una rappresaglia, di fatto
insensata, ai danni due poliziotti palestinesi. Ma più di questo, racconta
di quanto lì per lì fu eccitante farlo, e di quanto adesso, invece, la vede
diversamente, sinceramente pentito.
Avi Mograbi (nonostante la
moglie sia contraria all'impresa di intervistare il giovane nel loro
salotto), lo filma accontentando la sua richiesta di oscurargli il volto
(teme evidentemente vendette da parte dei famigliari delle sue vittime), e
interpola lintervista in modo singolare e significativo. Da una parte con
discussioni, dolci e aspre al tempo stesso, tra l'ex-soldato e la sua
ragazza (che fa fatica a capire le sue ragioni, e il suo punto di vista
sulla vicenda). Dall'altra con intermezzi musical in cui Mograbi stesso (nel
suo salotto, non meno campo di battaglia del luogo del passato scontro a
fuoco, poi puntualmente visitato e sovrimpresso appunto con le immagini del
salotto di Mograbi) spiega cantando le ragioni di una scelta problematica
come quella di dare voce a chi è così evidentemente dalla parte del torto.
Mograbi coglie in pieno la posta etica in gioco. Rifiutare il politicamente
corretto, e concedere a chi si sporca le mani la seconda chance del perdono.
Perciò, solidarizza con l'ex-soldato non semplicemente illustrandone le
ragioni da fuori (che sarebbe un altro modo per ghettizzarlo), ma
sporcandosi le mani anche lui, ovvero scegliendo un punto di vista sugli
eventi (l'orchestrina cantante nel suo salotto) clamorosamente inadeguato e
gratuito rispetto ai tragici eventi di cui si racconta. Al godimento osceno
sul campo di battaglia, confessato con coraggio dal giovane, sarebbe troppo
facile rispondere con una condanna dall'esterno: l'unica risposta onesta è
un'analoga oscenità, rappresentata in questo caso dal godimento che è il
musical, abbracciato da Mograbi con tutto l'imbarazzo del caso.
Scontata l'irrecuperabilità ovvia, fatale e metafisica dell'evento in
questione, attraverso il sopralluogo di regista e intervistato sullo spiazzo
ora calmo e vuoto in cui ci fu la mattanza, è ancora più chiaro di quanto
non dovrebbe già essere che l'unica solidarietà possibile è quella tra
colpevoli. E quindi, l'unica cosa da rifuggire come la peste è la fuga dalle
proprie responsabilità, senza che però questo significhi esibire
muscolarmente la propria forza di assumerle. Perciò Mograbi imbastisce una
complessa dialettica sulla nebulosa grigia di pixel digitali con cui oscura
per proteggerlo il volto del suo interlocutore. Dapprima, vediamo solo un
alone grigio sulla sua faccia, e niente sotto. Dopo un po', vediamo l'alone
grigio con ritagliati buchi da cui traspaiono occhi e bocca. E poi, vediamo
la sua faccia apparentemente scoperta, trasparente: la sua. E invece no.
Portandosi la mano alla bocca per fumare, ci rivela che sul suo volto cè
un'altra maschera digitale color carne , e quindi ingannevole. Troppo comodo
l'anonimato, e troppo impossibile rivelare il proprio vero volto,
soprattutto in casi come questi in cui l'intimità del soggetto in questione
(cioè il suo vero volto) è evidentemente e completamente lacerata (le lunghe
discussioni con la ragazza stanno proprio a dirci questo). Urge una via di
mezzo che incarni tutta la problematicità della questione: e Mograbi, che è
troppo intelligente per non sapere che un documentario è innanzitutto
questione di effetti speciali, la trova nell'intervento digitale. Con cui,
ancora una volta, si sporca le mani, perché solo sporcandosi le mani è
possibile una qualche forma di solidarietà.
29:08:2008
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