A ERVA DO RATO

di Julio Bressane

Brasile, 80'

 

VENEZIA 65. ORIZZONTI

 

di Marco GROSOLI

 

30/e lode

 

Julio Bressane fonde due racconti di Machado de Assis (scrittore capitale della letteratura portoghese) e cava fuori una strepitosa parabola sull'inesistenza del rapporto sessuale, sulla sua condanna al feticismo, e quindi, al cinema.

Una maestrina schiacciata da una vita al servizio del padre invalido e letterato, appena morto, viene concupita da un altro maniaco della letteratura, che la riduce a scribacchina sotto le sue incessanti dettature di storia, geografia, mitologia. Discipline che nei passaggi citati, dettati e ricopiati, assumono dirompenti sottintesi sessuali (una conformazione montuosa come un seno, un volatile come un fallo...) - e la cosa non sorprende, data l'estenuante castità cui è costretta la ragazza. Per fortuna che c'è il topo.
Già, perché poco dopo che lui comincia a fotografare ossessivamente lei nuda, un topo fa irruzione in casa di notte, e prima divelle le foto, e poi si infiltra nel letto di lei, la percorre variamente e la penetra. E lei comincia ad approvare. Lui però lo trova e lo uccide. Lei poco dopo muore, ma anche dopo molto tempo lui continua a fare le stesse cose di prima (prendere il té, fotografare...) non più con lei in carne ed ossa, ma con il suo scheletro, impeccabilmente conservato e ripulito.
Come nessun altro, Bressane sa bloccare il visibile in conformazioni pittoriche mozzafiato si tratta, warburghianamente, di Engrammi, cioè di formule figurative la cui fissità (la posa) serve a provocare il movimento, a spronarlo per farsene attraversare nella danza eterna del divenire. Ogni inquadratura si cristallizza in magnifiche forme visuali, bloccate in una sublime staticità grafica che vibra di luce e che è pronta a morire e sciogliersi nell'inquadratura successiva. Questa tensione continua tra quadro e quadro, che sostituisce il tempo mediante una orizzontale successione di spazialità pittoriche e ne ricava una vivissima sensazione di movimento (come differenza immediata tra quadro e quadro, come al cinema l'illusione del movimento nasce dalla differenza tra il fotogramma e il successivo), ripercorre da molto vicino l'ossessione del protagonista di distanziare l'oggetto del desiderio nella mortifera stasi fotografica per poi sdoppiarsi nel movimento puro, privo di soggetto (animale appunto) del topo. La foto, il quadro, insomma la staticità impossibile dell'immagine, produce un eccesso mobile: il topo, il movimento.

Scheletro o corpo, l'oggetto è perfettamente indifferente, la partita si gioca sulle superfici, dei corpi su cui si proietta l'ombra del topo, del panneggio sotto il quale esso si muove, delle foto che il topo rosicchia. La penetrazione uomo-donna è semplicemente e irriducibilmente illusoria, addirittura assente. La carica di eros si situa non nella profondità penetrativa ma nelle vibrazioni sulla superficie (dell'immagine come del corpo), quelle vibrazioni generate reattivamente già da quella costrizione che è la scrittura (il corpo di lei che si dimena durante le lunghe sessioni di dettatura): non è un caso se parte della colonna audio è occupata da un suono sibilante che può essere identificato in modo perfettamente ambivalente come lo squittio del topo (il movimento) o come il rumore della penna sulla carta.
L'uomo può solo seguire passivamente, di notte quando lei va in sonnambula, la donna che si dimena istericamente in cerca di un piacere (ancora il topo) che arriverà formalmente solo come orgasmo femminile, cioè diffusamente su una superficie anziché fallicamente concentrato in una profondità puntuale.
Profondità che è quel centro mancante e irraggiungibile attorno a cui sta l'oggetto indifferentemente vivo o morto (prima vivo poi morto, ma per lui è uguale), carne o scheletro, perché esso per lo sguardo maschile si dà solo feticisticamente come segno della propria assenza (la donna, a un certo punto, nel momento stesso in cui si spoglia vela la macchina da presa con i suoi vestiti, negandogli la propria nudità). L'oggetto stesso dunque, la donna, cerca uno sguardo, ma lo potrà trovare solo nello sguardo puro e senza soggetto che è ancora il topo, la cui ombra gigante sul muro guarda i due durante le loro performance fotografiche.
E cos'altro è questo topo, essendo sguardo impersonale e puro movimento al tempo stesso, se non il cinema? Cos'è il cinema se non quello sguardo non umano che fa vibrare le superfici, e che ci dice dall'alto della sua inumanità che il piacere è sovranamente indifferente alla morte, dislocata rispetto ad essa (come il topo/fallo è separato dall'uomo) ma ad essa consustanziale? Il piacere e la morte (cioè l'azione disgregatrice del tempo) come due facce di una stessa medaglia, così come il veleno Erva do rato, insegna la farmacologia carioca, è simultaneamente veleno che il proprio stesso contravveleno.
 

02:09:2008

A ERVA DO RATO

di Julio Bressane

VENEZIA 65. ORIZZONTI