MELANCHOLIA

di Lav Diaz

Filippine, 450'

 

VENEZIA 65. PREMIO ORIZZONTI

 

di Marco GROSOLI

 

30/e lode

 

In un villaggio del nord delle Filippine, si aggirano una suora, una prostituta, un magnaccia. Saltuariamente, quest’ultimo organizza anche spettacolini porno-voyeuristici per turisti stranieri. Qualche ora dopo, apprendiamo che nessuno di essi è ciò che sembra. Il magnaccia è in realtà il ricco (relativamente) editore Julian, la prostituta è in realtà la benestante direttrice didattica Alberta, la suora è la vulnerabile Rina, che infatti entra troppo nella parte, si immedesima coi dolori del mondo, e si uccide. Tutti e tre sono protagonisti di una sorta di reality “dal vivo”, senza telecamere e a scopo radicalmente terapeutico: le vite di tutti e tre sono infatti state distrutte dal crollo delle utopie politico-rivoluzionarie di una decina di anni prima, culminate con la morte violenta di Renato, compagno di Alberta, e attraverso questa immedesimazione nei panni altrui Julian spera che possano trovare quella distanza da loro stessi sufficiente a farli stare a galla, a vivere insomma. Il fallimento della terapia escogitata da Julian rigetta tutti nella disperazione, a cominciare da Julian. Alberta, però, in qualche modo va oltre: anziché immedesimarsi terapeuticamente in una prostituta, rivolge la propria identificazione alla sedicenne Hannah, “vera” prostituta rimasta orfana perché i genitori le sono morti nello stesso tentativo di resistenza che costò la vita a Renato. In altre parole, Alberta sperimenta la compassione, l’identificazione non verso qualcos’altro ma verso, per così dire, “un’altra se stessa”, cioè la giovane Hannah, che come la stessa Alberta ha cercato invano di perdersi nella prostituzione per dimenticare il lutto dei propri cari e la fine delle utopie.
Straziante, monumentale manuale di resistenza, che sa in primo luogo di dover risorgere sempre dalle ceneri stesse della resistenza. Qualunque tentativo di resistenza è destinata allo scacco, alla sconfitta: di qui la malinconia, che è però ancora e sempre l’unica forma di resistenza possibile. Abitare il tempo vivendone sulla pelle la scissione, attimo per attimo, sentirsi parte della reazione ad esso che naturalmente siamo, morirne sapendo che qualcun altro ha fatto e farà lo stesso al nostro posto. Le 2-3 ore che chiudono il film ritraggono Renato e i suoi compagni braccati, circondati in una foresta dai militari, in attesa di una fine e di una morte certa: ciononostante, e nonostante la follia in cui cade uno di loro, combattono ancora. Il loro sforzo e la loro sconfitta letteralmente risorge, nel film, dalla sconfitta in cui cade il tentativo di Julian, Alberta e Rina di esorcizzare la mai rimarginata sconfitta di Alberto e degli altri. Non conta, non basta diventare un’altra persona per rimuovere il dolore di chi è morto lottando: non solo la scissione con la nostra nuova maschera inevitabilmente si riapre sanguinando, ma noi stessi diventiamo direttamente chi è morto lottando, identifichiamo in pieno la nostra esperienza (e ogni esperienza è innanzitutto esperienza del tempo) con la loro attesa della fine, con l’attesa della fine di Renato e i suoi compagni nella foresta.
Per questo il film dura e deve durare sette ore e mezza. Per costringerci all’identificazione con chi gli viene sbattuto in faccia l’ostacolo che non si può superare: il tempo. Ed è il tempo, la durata di estensione “reale”, in continuità, che riannoda l’odissea di Renato e dei suoi, che chiude il film, con l’odissea iniziale di Julian e degli altri, messa in piedi precisamente per esorcizzare la sconfitta di Renato.
I prossimi, in questa catena di resistenti in cui ognuno è condannato a fallire e passare il testimone a altri che falliranno in loro vece e così via (esattamente come in The sky crawlers di Oshii), siamo noi. Siamo noi a riportare in vita la “morte al lavoro” che è il cinema tanto quanto la vita, eternamente separati e riavvicinati da ciò che li annoda reciprocamente: il tempo. Non c’è nemmeno più la coesione spaziale della situazione unica, del set compatto, come in Death in the land of Engkantos, qui c’è un unico set cosmico che abbraccia gli spazi e i tempi più disparati (e disperati) attraverso la deriva delle identità, trait d’union di tutti i blocchi di questo film (che da un certo punto in poi rifiuta qualunque velleità di prosecuzione lineare in nome di una specie di coesistenza orizzontale dei vari blocchi statici avulsi tra loro, e che possono durare anche molte decine di minuti), che non a caso finisce con Julian che giura di non essere Julian.
E questa schizofrenia, questa deriva delle identità schiacciata dall’illusione che ci sia un soggetto (parente stretta dell’altra e decisiva illusione, cioè che esista un tempo), è la resistenza. Quella che permette ad Alberta di specchiarsi in un altro simile a lei (Hannah): la compassione, l’agape. Quella che permette a uno spettatore di identificarsi davanti a uno schermo cinematografico: tutti, noi e loro, siamo schiacciati dal tempo, anche oggi, nell’epoca del reality in cui possiamo illuderci di usare il tempo (proprio come Julian e i suoi nelle prime ore del film) per diventare un’altra persona.
Melancholia, infatti, è anche questo: la resurrezione del cinema, della sua identificazione con un soggetto irrimediabilmente alla deriva, nell’epoca in cui possiamo illuderci di creare e di indossare le maschere che vogliamo, ovvero nell’epoca del reality show.
 

02:09:2008

MELANCHOLIA

di Lav Diaz

VENEZIA 65. ORIZZONTI