In un villaggio del nord
delle Filippine, si aggirano una suora, una prostituta, un magnaccia.
Saltuariamente, quest’ultimo organizza anche spettacolini porno-voyeuristici
per turisti stranieri. Qualche ora dopo, apprendiamo che nessuno di essi è
ciò che sembra. Il magnaccia è in realtà il ricco (relativamente) editore
Julian, la prostituta è in realtà la benestante direttrice didattica
Alberta, la suora è la vulnerabile Rina, che infatti entra troppo nella
parte, si immedesima coi dolori del mondo, e si uccide. Tutti e tre sono
protagonisti di una sorta di reality “dal vivo”, senza telecamere e a scopo
radicalmente terapeutico: le vite di tutti e tre sono infatti state
distrutte dal crollo delle utopie politico-rivoluzionarie di una decina di
anni prima, culminate con la morte violenta di Renato, compagno di Alberta,
e attraverso questa immedesimazione nei panni altrui Julian spera che
possano trovare quella distanza da loro stessi sufficiente a farli stare a
galla, a vivere insomma. Il fallimento della terapia escogitata da Julian
rigetta tutti nella disperazione, a cominciare da Julian. Alberta, però, in
qualche modo va oltre: anziché immedesimarsi terapeuticamente in una
prostituta, rivolge la propria identificazione alla sedicenne Hannah, “vera”
prostituta rimasta orfana perché i genitori le sono morti nello stesso
tentativo di resistenza che costò la vita a Renato. In altre parole, Alberta
sperimenta la compassione, l’identificazione non verso qualcos’altro ma
verso, per così dire, “un’altra se stessa”, cioè la giovane Hannah, che come
la stessa Alberta ha cercato invano di perdersi nella prostituzione per
dimenticare il lutto dei propri cari e la fine delle utopie.
Straziante, monumentale manuale di resistenza, che sa in primo luogo di
dover risorgere sempre dalle ceneri stesse della resistenza. Qualunque
tentativo di resistenza è destinata allo scacco, alla sconfitta: di qui la
malinconia, che è però ancora e sempre l’unica forma di resistenza
possibile. Abitare il tempo vivendone sulla pelle la scissione, attimo per
attimo, sentirsi parte della reazione ad esso che naturalmente siamo,
morirne sapendo che qualcun altro ha fatto e farà lo stesso al nostro posto.
Le 2-3 ore che chiudono il film ritraggono Renato e i suoi compagni
braccati, circondati in una foresta dai militari, in attesa di una fine e di
una morte certa: ciononostante, e nonostante la follia in cui cade uno di
loro, combattono ancora. Il loro sforzo e la loro sconfitta letteralmente
risorge, nel film, dalla sconfitta in cui cade il tentativo di Julian,
Alberta e Rina di esorcizzare la mai rimarginata sconfitta di Alberto e
degli altri. Non conta, non basta diventare un’altra persona per rimuovere
il dolore di chi è morto lottando: non solo la scissione con la nostra nuova
maschera inevitabilmente si riapre sanguinando, ma noi stessi diventiamo
direttamente chi è morto lottando, identifichiamo in pieno la nostra
esperienza (e ogni esperienza è innanzitutto esperienza del tempo) con la
loro attesa della fine, con l’attesa della fine di Renato e i suoi compagni
nella foresta.
Per questo il film dura e deve durare sette ore e mezza. Per costringerci
all’identificazione con chi gli viene sbattuto in faccia l’ostacolo che non
si può superare: il tempo. Ed è il tempo, la durata di estensione “reale”,
in continuità, che riannoda l’odissea di Renato e dei suoi, che chiude il
film, con l’odissea iniziale di Julian e degli altri, messa in piedi
precisamente per esorcizzare la sconfitta di Renato.
I prossimi, in questa catena di resistenti in cui ognuno è condannato a
fallire e passare il testimone a altri che falliranno in loro vece e così
via (esattamente come in The sky
crawlers di Oshii), siamo noi. Siamo noi a riportare in vita la
“morte al lavoro” che è il cinema tanto quanto la vita, eternamente separati
e riavvicinati da ciò che li annoda reciprocamente: il tempo. Non c’è
nemmeno più la coesione spaziale della situazione unica, del set compatto,
come in Death in the land of
Engkantos, qui c’è un unico set cosmico che abbraccia gli spazi e i
tempi più disparati (e disperati) attraverso la deriva delle identità, trait
d’union di tutti i blocchi di questo film (che da un certo punto in poi
rifiuta qualunque velleità di prosecuzione lineare in nome di una specie di
coesistenza orizzontale dei vari blocchi statici avulsi tra loro, e che
possono durare anche molte decine di minuti), che non a caso finisce con
Julian che giura di non essere Julian.
E questa schizofrenia, questa deriva delle identità schiacciata
dall’illusione che ci sia un soggetto (parente stretta dell’altra e decisiva
illusione, cioè che esista un tempo), è la resistenza. Quella che permette
ad Alberta di specchiarsi in un altro simile a lei (Hannah): la compassione,
l’agape. Quella che permette a uno spettatore di identificarsi davanti a uno
schermo cinematografico: tutti, noi e loro, siamo schiacciati dal tempo,
anche oggi, nell’epoca del reality in cui possiamo illuderci di usare il
tempo (proprio come Julian e i suoi nelle prime ore del film) per diventare
un’altra persona.
Melancholia, infatti, è anche
questo: la resurrezione del cinema, della sua identificazione con un
soggetto irrimediabilmente alla deriva, nell’epoca in cui possiamo illuderci
di creare e di indossare le maschere che vogliamo, ovvero nell’epoca del
reality show.
02:09:2008
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