jay

di Francis Xavier Pasion

Filippine, 96'

 

VENEZIA 65. ORIZZONTI

 

di Valentina VELLUCCI

 

28/30

 

Cinico sotto ogni punto di vista, senza neppure  un pallido riflesso di buonismo. E se pure quel riflesso può essere trovato, si rimane col sospetto (o con la certezza) che sia solo un posticcio barlume montato e tagliato ad arte per vendere di più. Tutto questo è Jay: una sorta di mockumentary metacinematografico che nega qualsiasi possibilità di redenzione ai suoi protagonisti (e persino agli spettatori che assistono al consumarsi della pellicola  in diretta). Un documentario sul dolore in diretta, teso a filmare il divenire spregiudicatamente commerciale della sofferenza di una madre che ha appena perso il figlio. Non c’è spazio per  i sentimenti, c’è solo spazio per il real drama dei sentimenti.  JAY ci mostra come la brutalità del dolore per la perdita di un figlio, possa essere addomesticata in tutto e per  tutto grazie a  una telecamera. Nella pellicola filippina, le vittime di questo dramma perdono non solo di dignità, ma di vera e propria umanità: spogliato della sua stessa natura, rimane solo l’ombra di un uomo una volta dominato dalle sue passioni, ora con la schiena piegata verso l’obiettivo di una telecamera. E solo dal profilo giusto.

Non esiste la dimensione del dolore così come la si conosce: tutto è patinato sino alla negazione stessa del posticcio. Ci si persuade che ciò che si fa sia vero. Una lucida menzogna domina l’intera pellicola. Il giornalista di Channel 8, pagato per filmare dal vero le reazioni di questa famiglia sconvolta dalla perdita del figlio maggiore, sussume nel suo personaggio la figurativizzazione di un demiurgo disinibito, pronto  a plasmare  la dimensione privata del dolore così come  il pubblico la vorrebbe vedere.  Spietato fino in fondo, in JAY (che è sia  il nome del giornalista sia del ragazzo protagonista suo malgrado del real drama di Channel 8) la dimensione della costruzione cinematografica domina l’intero scorrere degli eventi, evidenziando come per  un programma televisivo, talvolta  la sofferenza vera non sia abbastanza commovente da essere mostrata. Per vendere  è necessario offrire di più. Anche se questo vuol dire corrompere la dimensione privata della disperazione per  E così si accentuano lacrime, crisi isteriche, urla. Viene persino chiesto agli “amici” di Jay di spiegare perché piangono durante le interviste. I più umani rimangono allibiti: stanno semplicemente seguendo le indicazioni del giornalista, nulla di più. Eseguono solo gli ordini.

Lo smarrimento durante la visione di JAY è tale da  indurre chi vede a interrogarsi sul livello di realtà di ciò che sta vedendo. Se tutto questo cinismo è davvero possibile. È davvero reale la corruzione dell’istinto materno? L’accanimento nei confronti della figura materna (sia di quella del Jay defunto sia del Jay giornalista) è tale da lasciar sottointendere probabilmente  un rapporto contrastato del regista con la madre. La figura materna esce infatti demonizzata da questa pellicola. Se la madre del ragazzo defunto è pronta a rigirare la scena del riconoscimento del cadavere più volte per la “prima” non era utilizzabile a causa del nastro rovinato, la madre del Jay inviato di Channel 8 non  è sicuramente migliore. Una voce telefonica che ossessiona  il figlio, lo soffoca, lo controlla, lo umilia e allo stesso tempo gli ordina di essere  il migliore. Sopra ogni costo. Schiacciato sotto la figura  (solo telefonica) della madre, Jay non appare più uno spregiudicato demiurgo, ma  un sadico  burattino funestato da  un forte complesso di Edipo e carente di un sfaccettatura prettamente  umana. Si potrebbe estremizzare dicendo che è un figlio del nostro tempo: il regista  è in qualche  modo riuscito a scampare il pericolo di una tale stereotipizzazione solo nel finale, da  una parte originale dall’altra un po’ zoppicante per essere un vero e proprio mockumentary.  Origine perché più di un  finale si tratta di una sorta di meta finale, zoppicante perchè, per quanto sia ben strutturato l’intero plot, il mockumentary per essere tale deve lasciare lo spettatore in preda alla più totale incapacità di distinguere fra vero e falso. JAY non è dunque agghiacciante come Street Thief di Malik Bader, ma ha sicuramente una dose di “cinismo pedagogico” incredibilmente rara.

 

29:08:2008

jay

di Francis Xavier Pasion

VENEZIA 65. ORIZZONTI