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Shirin di Abbas Kiarostami
Iran, 92' VENEZIA 65. FUORI CONCORSO |
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27/30
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Shirin è la protagonista di uno dei miti più belli raccontati da Sheherazad per incantare il suo sposo, il re persiano Shāhrīyār. Innamorata di un pescatore secondo la fiaba narrata nella 390° notte, ammaliata dal capo costruttore Farad secondo la più antica mitologia persiana: sempre e comunque una principessa dalla straordinaria bellezza, destinata ad amare senza mai essere davvero ricambiata. La bella signora dell’Armenia, agghindata dai suoi ricchi e pesanti monili, sembra quasi di vederla in tutto il suo splendore nel film di Abbas Kiarostami SHIRIN. Sembra perché in realtà, nella pellicola di Kiarostami, non si mostra mai Shirin, né il suo amato Farad. Si può solo immaginarli grazie ai volti, a quei 114 volti di spettatrici sedute davanti al grande schermo dove viene proiettato Shirin. 114 volti che sono guardati mentre guardano Shirin. Un infinito gioco di cornici il cui contenuto muta continuamente: si può di volta in volta scegliere come la nostra mente vuole vivere Shirin e il suo dramma. Non esiste, mai come in questo caso, Shirin senza il suo spettatore. O meglio, senza lo spettatore del suo spettatore. È difficile da definire chi davvero guarda chi, poiché quei primissimi piani permettono alle spettatrici iraniane di osservarci, di profanare il sacro spazio, il pudore di chi vorrebbe solo guardare un film e invece viene guardato come un film. A chi appare davvero la rappresentazione del dramma di Shirin: lì sta l’essenza della rappresentazione di Kiarostami. La luce della proiezione si riflette sul volto di chi osserva allo stesso modo: sia sugli spaesati spettatori di Venezia, sia sulle 114 donne iraniane (fra i cui volti riconosciamo quello di Juliette Binoche). Kiarostami mette tutti allo stesso livello, insinuando il destabilizzante dubbio che in realtà nessuno abbia mai assistito alla messa in scena del poema di Shirin… come se negli occhi di quelle donne iraniane, ritrovassimo il riflesso di una pellicola che trasmette l’immagine di un altro smarrito spettatore alla ricerca di una visione materiale di Shirin:quello in sala. Una democratizzazione dell’immagine emozionale capace di rimettere in discussione la tematica del “cinema nel cinema” senza mostrare veramente qualcosa di cinematografico ma solo, e semplicemente, il cinema stesso. Se nulla davvero viene mostrato, tutto viene percepito: una sinestesia complessa ma spontanea fra ciò che viene ascoltato e ciò che può essere immaginato accompagna e guida lo spettatore nel mondo di Shirin. I primissimi piani di Kiarostami disegnano l’effetto del cinema sul mondo con consapevole lucidità. Una padronanza del primissimo piano probabilmente acquisita e migliorata grazie a TEN (2002), che in Shirin si manifesta in una poetica dell’immagine del cinema nel cinema più simile a un ammissione della debolezza dell’uomo videns nei confronti del mezzo cinematografico che a un semplice omaggio alla settima arte.
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Shirin di Abbas Kiarostami VENEZIA 65. FUORI CONCORSO |
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