Shirin

di Abbas Kiarostami

Iran, 92'
 

VENEZIA 65. FUORI CONCORSO

 

di Marco GROSOLI

 

28/30

 

Kiarostami filma svariate decine di primi piani di donne al cinema, mentre guardano Shirin, celebre poema/drammone iraniano, di cui sentiamo solo i dialoghi e i rumori (o meglio, li leggiamo sui sottotitoli). Tutto qua.
Evidentemente, è un film estremo, una specie di Michael Snow che spinge la sua mania di rivelazione (e ri-nascondimento sempre rilanciato) del dispositivo cinematografico fino a un punto straniante, tra il lisergico e il pornografico.

Il nostro sguardo di spettatori non guarda più un film, ma ci ritorna indietro, rispedito al mittente da una miriade di sguardi di donne (spesso bellissime). Ciò che guardiamo è lo sguardo stesso: ma non si tratta solo di questo. Il nostro sguardo è inevitabilmente unitario: il nostro sguardo individuale è, o almeno così non può non sembrarci, sempre lo stesso dall'inizio del film. In quanto unitario, possiamo identificarlo (voyeuristicamente) come maschile. Lo sguardo che invece viene rispedito al mittente è molteplice, franto, frantumato in mille sguardi femminili tutti uguali eppure tutti diversi, separati da differenze impredicabili ma pur sempre in qualche modo percettibili. Un caleidoscopio di infinite differenze che fra laltro unisce e confonde spettatrici vere con attrici (tra cui Niki Karimi e Juliette Binoche). Maschile e femminile sono dunque strettamente legati, e insieme distinti, dal percepibilissimo (provare a guardare questo film per credere) legame tra quegli sguardi opposti che sono lunitarietà (maschile) da un lato e la molteplicità (femminile) dall'altro. Non sarà un caso allora se il film che sentiamo scorrere sullo schermo (che mai vediamo) racconta di un uomo e di una donna che vengono uniti per l'eternità proprio dalla loro tragica separazione.
Il risultato è assolutamente ipnotico. Noi e loro, spettatori di Shirin di Kiarostami e spettatori di Shirin poema filmato, sulla stessa barca: tutti guardiamo uno schermo, e lui (lo schermo) ci riguarda a sua volta, altro non essendo che quella luce bianca che vediamo dentro le pupille delle nostre colleghe speculari protagoniste del film di Kiarostami. Mentre percepiamo a pelle lo scambio incessante tra soggetto e oggetto stretti fino all'inestricabilità a dispetto dell'apparente chiarezza della loro distinzione (fulcro di tutti i film del regista iraniano), ci accorgiamo che guardare significa essere riguardati a propria volta. Posare uno sguardo su qualcosa vuol dire (inversamente) ricevere su di sé un altro sguardo, uno sguardo che, sia il nostro o meno, è fatto di quell'indeterminatezza aperta all'eterno gioco caleidoscopico delle differenze che è lindeterminatezza della pure e semplice luce bianca.

Ovvero del cinema, puro e semplice.

04:09:2008

Shirin

di Abbas Kiarostami

VENEZIA 65. FUORI CONCORSO