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Shirin di Abbas Kiarostami
Iran, 92' VENEZIA 65. FUORI CONCORSO |
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28/30
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Kiarostami filma svariate decine di primi piani
di donne al cinema, mentre guardano
Shirin, celebre poema/drammone iraniano, di cui sentiamo solo i
dialoghi e i rumori (o meglio, li leggiamo sui sottotitoli). Tutto qua.
Il nostro sguardo di spettatori non guarda più
un film, ma ci ritorna indietro, rispedito al mittente da una miriade di
sguardi di donne (spesso bellissime). Ciò che guardiamo è lo sguardo stesso:
ma non si tratta solo di questo. Il nostro sguardo è inevitabilmente
unitario: il nostro sguardo individuale è, o almeno così non può non
sembrarci, sempre lo stesso dall'inizio del film. In quanto unitario,
possiamo identificarlo (voyeuristicamente) come maschile. Lo sguardo che
invece viene rispedito al mittente è molteplice, franto, frantumato in mille
sguardi femminili tutti uguali eppure tutti diversi, separati da differenze
impredicabili ma pur sempre in qualche modo percettibili. Un caleidoscopio
di infinite differenze che fra laltro unisce e confonde spettatrici vere con
attrici (tra cui Niki Karimi e Juliette Binoche). Maschile e femminile sono
dunque strettamente legati, e insieme distinti, dal percepibilissimo
(provare a guardare questo film per credere) legame tra quegli sguardi
opposti che sono lunitarietà (maschile) da un lato e la molteplicità
(femminile) dall'altro. Non sarà un caso allora se il film che sentiamo
scorrere sullo schermo (che mai vediamo) racconta di un uomo e di una donna
che vengono uniti per l'eternità proprio dalla loro tragica separazione.
Ovvero del cinema, puro e semplice. |
Shirin di Abbas Kiarostami VENEZIA 65. FUORI CONCORSO |
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