SUT

di Semih Kaplanoglu

Turchia/Francia/Germania, 102'

 

VENEZIA 65. FUORI CONCORSO

 

di Marco GROSOLI

 

29/30

 

Seconda parte di una trilogia inaugurata dall'ottimo Yumurta, SUT racconta di un giovane lattaio che sogna di diventare poeta. Non esattamente intraprendente con le ragazze (che pure qua e là in qualche modo frequenta), vive solo con la madre, e se ne ingelosisce a morte quando lei trova un amante. E per lui un autentico trauma, ma attraverso di esso arriverà a crescere, forse addirittura a tagliare il suo ingombrante corbone ombelicale.

Anche Kaplanoglu ha ambizioni poetiche. Ma riesce a superarle, e a non rimanerne vittima. Il suo è un cinema che usa egregiamente i silenzi, il campo lungo, le angolazioni e le composizioni ricercate, la luce naturale, i paesaggi, le sospensioni, i movimenti incerti dei personaggi, la ieraticità di messa in scena insomma. Ma non si tratta di un presepe meramente contemplativo. Alla fine, trascina emotivamente anzi, già dall'inizio, vista la stupefacente scena iniziale con una donna appesa a testa in giù da cui esce un serpente dalla bocca. Se nel film precedente questi momenti erano relegati alle parentesi oniriche (peraltro indimenticabili), stavolta Kaplanoglu senza più la scappatella del sogno puntella la pellicola di sporadici sintomi misteriosi (uno svenimento, una caduta, un serpente che appare all'improvviso), di saltuarie incursioni nell'inspiegabile (come appunto la scena iniziale), a costruire un'angoscia diffusa che solo il trauma del tradimento spingerà il protagonista a risolvere.

D'accordo: i riferimenti archetipici possono sembrare di grana grossa. Passi il latte (col quale è continuamente alle prese la madre contadina) come segno dell'elemento materno, ma le invasioni del serpente nella cucina di casa a simboleggiare il fallo maschile che riemerge dalla propria rimozione (in casa, ricordiamolo, il padre non cè) possono sembrare problematiche. E invece no: è proprio questa facilità che concede al film quella leggibilità di cui ha bisogno come l'aria, per introdurre l'identificazione e scongiurare il rischio di freddezza formalistica. Rischio superato in pieno da una seconda parte allucinante, in cui il brancolare nel buio di una notte di città, insieme soprattutto al seguente e labirintico incedere in un canneto per farla pagare all'amante della madre che sta cacciando anatre da quelle parti, avvicinano energicamente il protagonista all'empatia dello spettatore. Veniamo letteralmente risucchiati dalla mente confusa del protagonista sconvolto dal tradimento, e dal suo senso di terra che manca sotto i piedi, semplicemente in virtù di continue invenzioni visive e soprattutto grazie al magistrale gioco con le distanze: i campi rimangono sempre lunghi ma il loro succedersi diventa più tormentato e labirintico, e si riscontrano pure tagli in avvicinamento, aggiustamenti progressivi della distanza tra macchina da presa e personaggio, variazioni. Soprattutto cambia la distanza tra il racconto e lo spettatore: distanza che prima appariva invalicabile ma che in questa folgorante seconda parte lo è sempre meno.

Kaplanoglu, pur concedendo questo ed altro al racconto, rimane pervicacemente attaccato alle sue straordinarie doti pittoriche, che ribadisce ad ogni inquadratura. Rimane strenuamente attaccato alla trasfigurazione lirica di un mondo vibrante di concretezza materiale (i suoi film si intitolano in italiano uovo, latte). Il che spiega perché il suo protagonista, spronato da un mondo che da ogni parte lo accerchia costringendolo a sviluppare la sua virilità violenta (il fallo/serpente, l'amante da vendicare, i militari che vociano rumorosi per le strade), alla fine si arrende ma virtualizzando la sua virilità piuttosto che facendola esplodere indiscriminatamente. Una visione al rallentatore nel pre-finale di lui che mostra contento un pesce enorme alla madre ci dimostra come quel fallo che non può non assumersi non serve ad altro che a ricevere l'attenzione della madre. E allora non lo possiamo sopravvalutare, tantomeno abusarne. E allora ci si arrende, si va a lavorare in miniera, come ci mostra l'inquadratura conclusiva che indugia sulla luce del suo elmetto che ci viene sbattuta in faccia inondando il quadro ma appunto serbando il ricordo di una sospensione del mondo (di quel mondo che ci pretende partecipi e attivi) puramente visuale (la luce), coscienziale, poetica.
 

04:09:2008

SUT

di Semih Kaplanoglu

VENEZIA 65. FUORI CONCORSO