Entusiasmante e vorticoso “frullato” in cui
finiscono una vita intera, una terra, un mondo. Un medico etiope torna in
patria dopo anni passati all’estero prima per studiare e poi in esilio.
Troverà una situazione sempre colorita ma difficilissima, vitale ma
praticamente di guerra totale, in cui ripercorrerà la vita propria (e della
propria nazione) con lunghi flashback, e troverà la forza soprattutto di
abbracciare le contraddizioni, proprie ed altrui, e insegnare alle giovani
generazioni che esse, le contraddizioni, sono quanto di più prezioso e
politico si abbia – oltre ad essere il sale di qualunque spirito comunitario
autentico: lui stesso prenderà sotto la sua ala (a costo di litigare con la
famiglia) una giovane donna bandita da tutto e da tutti per avere ucciso la
donna del suo ex per pura gelosia rabbiosa.
Un film infuocato, in cui una valanga (impossibile da governare) di
informazioni e sensazioni travolge lo spettatore, il quale, inerme, può solo
fare la scoperta amara ma preziosa che le informazioni e le sensazioni sono
la stessa cosa. Un film infuocato, bruciato soprattutto dal montaggio, che
mescola furiosamente i piani, i tempi, gli spazi, in un unico maelstrom
trascinante. L’immensa carica politica del film sta proprio in questo: nel
ribadire a più riprese che l’affabulazione retorica, perfettina ed
istituzionale, è destinata a perdersi nell’impolitico almeno quanto i
rivoluzionari sedicenti marxisti post-Sellassie (il dittatore che ha
tiranneggiato l’Etiopia fino agli anni '70) irregimentandosi sono destinati
a rovesciarsi in fascisti sanguinari; solo la perdita del controllo (anche e
soprattutto del discorso) è autenticamente politica, solo essa può fornire
un terreno davvero comune, una paradossale appartenenza. Il protagonista,
zoppo da una gamba anche se non si ricorda perché, arrivato in patria è
letteralmente travolto dalle immagini della sua terra, eccessive,
straripanti. È un centro di osservazione che non riesce a organizzare
stimoli che lo eccedono continuamente; il territorio, come anche il film
algerino in concorso ci ricorda, è costitutivamente eccessivo, irriducibile
a chiudersi in etichette e identità. E infatti i lunghi flashback in cui
ripercorre la vita sua e della nazione non servono tanto a “raccontare”,
quanto a spiegare il perché della sua gamba rotta (solo alla fine se ne
ricorda: è stato buttato giù da una finestra da dei naziskin quando stava
ancora in Germania): in altre parole, si comincia e si finisce da
un’impossibilità fisica a orientarsi e a capirci qualcosa (la gamba rotta
costringe il protagonista a essere il bersaglio passivo di immagini che lo
bombardano da ogni parte), a districarsi da una contraddittorietà e da
un’incapacità a vederci chiaro. Impossibilità che non solo tormenta ogni
piega di questo film, ma è anche l’unica base effettiva di qualunque ipotesi
comunitaria, di qualunque ipotesi di “appartenenza” reciproca: in questo
senso, quello che il protagonista insegna ai bambini nel finale è proprio la
sua gamba rotta, l’impossibilità come collante positivo. La contraddizione
come sale della vita e della politica: la donna amata è quella che se ne va
perché troppo tosta per non sapere che fare un figlio in Germania (dove
allora viveva il protagonista) significa per due neri rovinargli la vita – e
la coppia mista idealista che ci proverà finirà piuttosto male.
Solo la ferita riavvicina gli uomini, e il montaggio ferisce più che
tagliare in questo film, anche mutilando corpi e movimenti senza lasciarli
compiere “normalmente” dall’inizio alla fine il loro svolgersi e
svilupparsi, indulgendo in una maniera di montare, per così dire, “in
controtempo”. E i flashback non si sviluppano da un intento freddo di
chiarimento e di racconto, ma da secchi di acqua gelata buttati addosso al
protagonista per “esorcizzare” la sua violenta inquietudine. Inquietudine
che non manca di fargli vedere lui stesso, bambino, inseguito ed abbattuto
da dei cecchini che in realtà, “nel presente”, stanno ammazzando un bambino
“vero” proprio davanti a lui. Solo nella ferita e con la ferita ci si può
identificare, e questo film sa trascinare all’identificazione, “ferendo” lo
spettatore invece di vezzeggiarlo con un raccontino sceneggiato e cesellato
per bene (come fanno i falsi cineasti politici alla Calopresti), come
davvero a pochi riesce di fare.
04:09:2008
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