teza

di Haile Gerima

Etiopia/Germania/Francia, 140'

 

VENEZIA 65. LEONE D'ARGENTO

OSELLA D'ORO MIGLIORE SCENEGGIATURA

 

di Marco GROSOLI

 

30/30

 

Entusiasmante e vorticoso “frullato” in cui finiscono una vita intera, una terra, un mondo. Un medico etiope torna in patria dopo anni passati all’estero prima per studiare e poi in esilio. Troverà una situazione sempre colorita ma difficilissima, vitale ma praticamente di guerra totale, in cui ripercorrerà la vita propria (e della propria nazione) con lunghi flashback, e troverà la forza soprattutto di abbracciare le contraddizioni, proprie ed altrui, e insegnare alle giovani generazioni che esse, le contraddizioni, sono quanto di più prezioso e politico si abbia – oltre ad essere il sale di qualunque spirito comunitario autentico: lui stesso prenderà sotto la sua ala (a costo di litigare con la famiglia) una giovane donna bandita da tutto e da tutti per avere ucciso la donna del suo ex per pura gelosia rabbiosa.
Un film infuocato, in cui una valanga (impossibile da governare) di informazioni e sensazioni travolge lo spettatore, il quale, inerme, può solo fare la scoperta amara ma preziosa che le informazioni e le sensazioni sono la stessa cosa. Un film infuocato, bruciato soprattutto dal montaggio, che mescola furiosamente i piani, i tempi, gli spazi, in un unico maelstrom trascinante. L’immensa carica politica del film sta proprio in questo: nel ribadire a più riprese che l’affabulazione retorica, perfettina ed istituzionale, è destinata a perdersi nell’impolitico almeno quanto i rivoluzionari sedicenti marxisti post-Sellassie (il dittatore che ha tiranneggiato l’Etiopia fino agli anni '70) irregimentandosi sono destinati a rovesciarsi in fascisti sanguinari; solo la perdita del controllo (anche e soprattutto del discorso) è autenticamente politica, solo essa può fornire un terreno davvero comune, una paradossale appartenenza. Il protagonista, zoppo da una gamba anche se non si ricorda perché, arrivato in patria è letteralmente travolto dalle immagini della sua terra, eccessive, straripanti. È un centro di osservazione che non riesce a organizzare stimoli che lo eccedono continuamente; il territorio, come anche il film algerino in concorso ci ricorda, è costitutivamente eccessivo, irriducibile a chiudersi in etichette e identità. E infatti i lunghi flashback in cui ripercorre la vita sua e della nazione non servono tanto a “raccontare”, quanto a spiegare il perché della sua gamba rotta (solo alla fine se ne ricorda: è stato buttato giù da una finestra da dei naziskin quando stava ancora in Germania): in altre parole, si comincia e si finisce da un’impossibilità fisica a orientarsi e a capirci qualcosa (la gamba rotta costringe il protagonista a essere il bersaglio passivo di immagini che lo bombardano da ogni parte), a districarsi da una contraddittorietà e da un’incapacità a vederci chiaro. Impossibilità che non solo tormenta ogni piega di questo film, ma è anche l’unica base effettiva di qualunque ipotesi comunitaria, di qualunque ipotesi di “appartenenza” reciproca: in questo senso, quello che il protagonista insegna ai bambini nel finale è proprio la sua gamba rotta, l’impossibilità come collante positivo. La contraddizione come sale della vita e della politica: la donna amata è quella che se ne va perché troppo tosta per non sapere che fare un figlio in Germania (dove allora viveva il protagonista) significa per due neri rovinargli la vita – e la coppia mista idealista che ci proverà finirà piuttosto male.
Solo la ferita riavvicina gli uomini, e il montaggio ferisce più che tagliare in questo film, anche mutilando corpi e movimenti senza lasciarli compiere “normalmente” dall’inizio alla fine il loro svolgersi e svilupparsi, indulgendo in una maniera di montare, per così dire, “in controtempo”. E i flashback non si sviluppano da un intento freddo di chiarimento e di racconto, ma da secchi di acqua gelata buttati addosso al protagonista per “esorcizzare” la sua violenta inquietudine. Inquietudine che non manca di fargli vedere lui stesso, bambino, inseguito ed abbattuto da dei cecchini che in realtà, “nel presente”, stanno ammazzando un bambino “vero” proprio davanti a lui. Solo nella ferita e con la ferita ci si può identificare, e questo film sa trascinare all’identificazione, “ferendo” lo spettatore invece di vezzeggiarlo con un raccontino sceneggiato e cesellato per bene (come fanno i falsi cineasti politici alla Calopresti), come davvero a pochi riesce di fare.
 

04:09:2008

teza

di Haile Gerima

VENEZIA 65. IN CONCORSO