Barbet Schroeder è
innanzitutto un grandissimo uomo di cinema. Uno che ha fatto respirare e
vivere la Nouvelle Vague (Eric Rohmer per primo, di cui è stato produttore
storico) anche dopo il suo boom, cioè quando la partita diventava
impegnativa. Ecco, appunto: quando si tratta di imprese spericolate e
immodeste (come realizzare l’immenso
La vergine dei sicari) Schroeder è un grande. Quando si schernisce e
fa il modesto, come in molti suoi film girati in America, è modesto davvero.
Anche il suo Alex Fayard è un finto modesto. È un giallista bestseller in
Francia, che però scopiazza e edulcora un suo collega giapponese, Shundei
Oe, che nessuno sa chi è o come sia fatto, a parte un suo autoritratto che
ha voluto porre in una sua quarta di copertina. Fayard, inevitabilmente, va
in Giappone per tentare di conoscere il suo mentore letterario. Che fin da
subito sembra essere molto potente, molto pericoloso e molto geloso del suo
anonimato. Una donna, ovviamente, ci si mette di mezzo.
In Giappone ci va anche Schroeder, spesso peraltro transfuga (e non solo in
America) sin dall’inizio della sua carriera quarant’anni fa. Porta per mano
lo spettatore depurando e spazzolando la trama e i suoi nodi a suon di
flashback e spiegazioni. Fino a, prevedibilmente, spiazzarlo completamente
nel finale. Quando, in una maniera che ovviamente non si può rivelare,
polverizza le illusioni di Fayard di capirci qualcosa, palesandolo al centro
di una subdola messinscena (dello stesso Oe, ovviamente), manipolato da un
manipolatore occulto che, suprema ironia, è sempre stato lì accanto a lui,
sotto ai suoi occhi.
La tutto sommato facile ambiguità in cui ci spinge Schroeder è quella di
srotolarci davanti il più ovvio dei gialli, per poi cancellare la sua stessa
ovvietà, la nostra (e sua) presunzione di conoscere anticipatamente e
accademicamente le regole del gioco). Per questo il film si apre con il
finale di una pellicola grandguignol nipponica (un adattamento tratto
da Oe, naturalmente) che Fayard mostra agli studenti di un’aula
universitaria, con (suo) polpettone critico al seguito. Possiamo pure (noi
come Fayard come Schroeder) illuderci di identificare l’autore e
identificare il lettore, di identificare un genere e le sue caratteristiche
– insomma di dare un nome e una proprietà alle immagini troppo naif che
scorrono su uno schermo. Il problema è che, come Fayard, ci immaginiamo
sempre troppo tardi di essere dentro quelle immagini, e smarriti nel loro
complotto invisibile. Nell’ultima inquadratura, perciò, dopo la scomparsa
sia dell’autore che del lettore (e soprattutto di Fayard, lettore di Oe e
autore da lui “derivato”), rimane solo il libro, sul tavolo, chiuso nel suo
sinistro anonimato.
29:08:2008
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