GABBLA

di Tariq Teguia

Algeria/Francia, 140'

 

VENEZIA 65. IN CONCORSO

 

di Marco GROSOLI

 

28/30

 

Un geometra viene incaricato dei lavori preliminari all’allargamento dell’elettricità a una zona dell’entroterra algerino più disastrato. All’inizio ci crede, si impegna, ma poi ritiene più utile aiutare una giovane aspirante emigrante a rimpatriare sana e salva, e la accompagna in motorino lungo il deserto.

La trama dunque, in questo film sbilanciato con grandissima sapienza sul lato figurativo (non a caso il regista insegna storia dell’arte ad Algeri), si riduce a poco: a una deviazione di percorso. Ma questo poco, in questo film, è tutto. Il percorso deve deviare, perché non c’è un percorso. E non c’è un percorso, una linea che conduca da A a B, perché non c’è un territorio. Teguia è bravissimo ad attaccarsi con caparbietà e amore al proprio territorio natale (non diremo il mostruoso aggettivo “nazionale”), e allo stesso tempo rilevarne la non-esistenza di fatto. Non c’è bisogno del deserto, infatti, per mostrare la terra, la propria, come una cosa sinistramente informe. Anche senza deserto, è sufficiente avere la grandissima perizia figurativa di Teguia. Che infatti basa il proprio film su inquadrature del passaggio “attraversate” da una forma che non arriva e non può arrivare ad architettarlo, ad organizzarlo. Teguia si guarda bene dal costringere il visibile in una forma, in un quadro, in un’immagine: piuttosto, usa il proprio sopraffino armamentario figurativo per trovare la preziosa e sottilissima soglie che unisce e separa la forma dall’informe. Piazza brandelli di forma, brandelli di traiettorie inconcluse, movimenti ondivaghi, in modo da cogliere e restituire questa soglia, questo ibrido. Si attacca al territorio, ma ne nega l’identità, la affonda in un lunghissimo carrello in avanti in un non-luogo abitato anche se semidesertico in cui solo i binari davanti a noi ci guidano; in una panoramica circolare da dentro una roulotte in cui vediamo il protagonista (che le sta girando intorno da fuori) solo nelle brevi parentesi in cui incrociamo una finestre; nella visione di copertoni piazzati chissà da chi e perché geometricamente nel bel mezzo del deserto.

Il film è fatto tutto di questi squarci lasciati come a metà. Un gomitolo di abbozzi narrativi (pochi e radi, comunque) che si impantano in allusioni metaforiche (il protagonista che asciuga del sangue nella sua roulotte), cenacoli rivoluzionari improvvisati, passaggi continui di palo in frasca a propria volta inframmezzati da frammenti intermedi al limite dell’insignificante (a un certo punto, passando dalla trama principale alla sottotrama, si vede qualche secondo uno che fa benzina: e allora?), indugi in una sospensione assoluta e orizzontale, quasi fuori dal tempo, correlativo oggettivo dell’impasse disperante in cui è incappata un’intera comunità, un intero mondo.

Anche narrativamente, insomma, il film sceglie di incepparsi nell’informe. E in questo sta il suo valore: nel coraggio con cui affronta uno squilibrio costitutivo. Come nell’immortale Les baliseurs du desert del tunisino Nacer Khemir, c’è molto chiara l’impossibilità di misurare un territorio. Protagonista è appunto un geometra: ci prova, ma fallisce. Il territorio eccede sempre, non lo si può costringere in un’identità.

E nell’affermare questo, soprattutto stilisticamente, il film è incrollabilmente politico.
 

03:09:2008

GABBLA

di Tariq Teguia

VENEZIA 65. IN CONCORSO