la biennale di venezia 2008
Ballet National de Marseille
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METAMORPHOSES
Frédéric Flamand
Nello scenario del Teatro alle Tese dell’Arsenale il palco aspetta come un quadro silenzioso l’inizio dello spettacolo: strutture a forma di cerchio sembrano galleggiare sopra la scena, alcune contengono una trama intrecciata di fili, altre sono semplici sagome vuote, altre ancora contengono un telo per visualizzare immagini proiettate.
“In noua fert animus mutatas dicere formas Corpora; di, coeptis, nam ous mutastis et illas, Adspirate meis primaque ab origine mundi Ad mea perpetuum deducite tempora carmen”. (Ovidio, Le Metamorfosi, Libro Primo, 1-5)
La mia mente mi sprona a cantare forme di corpi che si mutano in corpi nuovi: o dei, date favorevole corso alla mia impresa – voi, infatti, operaste anche quei mutamenti -; e dall’origine prima del mondo guidate l’arco del mio epico canto sino ai tempi miei. (Versione italiana a cura di Ferruccio Bernini, Bologna, 1941)
Tutto lo spettacolo si snoda estrapolando da Le Metamorfosi di Ovidio quei temi, quei personaggi, quelle vicende, che più di ogni altri sanno essere esempio di trasformismo, delle mutazioni possibile al corpo umano.
Cinque corpi di donna si preparano sdraiati sul pavimento. Compare l’immagine della terra nel cerchio sospeso. La scena si riempie di corpi in movimento, semplicemente tantissimi. Inizia una musica minimal, appare l’immagine di un embrione.
Da lontano arriva il suono di un pianoforte, che si fa sempre più concitato, dissonante e sembra partecipare al momentaneo disordine della scena. I ballerini si muovono ad un’altro tempo, seguendo una musica che non è quella del pianoforte: una seconda voce interiore che si snoda parallela al canto dello strumento.
Gruppi di coreografie attraversano la scena come fossero onde, in un incastro perfetto, senza mai sfiorarsi: è un tripudio visivo di corpi, forme, luci, colori.
Gli episodi che presentano in scena l’intero copro di ballo (composto da 15 danzatori) o parte di esso, si alternano a passi solistici o a due: ogni volta i movimenti si riflettono in immagini , in rumori, in suoni, ogni cosa è in continuo rimando con qualcos’altro.
L’utilizzo di protesi, materiali sintetici, sfondi di colore diverso creano una scenografia sempre nuova e allo stesso tempo in continua mutazione: la materia è sempre la stessa, non si esaurisce, non termina, assume costantemente nuove e inaspettate sembianze.
Ecco entrare in scena danzatrici con fili argentati legati ai polsi che si muovono sinuosamente, due uomini con le teste legate e imprigionate in un filo rosso, una donna con delle protesi luminose legate alle caviglie, ballerine con il copro incastrato in un groviglio di tubi, con abiti fatti di forme di plastica nera.
Lo sfondo cambia continuamente colore, come per suggerire l’inizio e le fine di ipotetici episodi che si intrecciano vorticosamente tra loro in una sorta di polifonia visiva: verde, arancione, rosa antico, rosso, bianco improvviso e quasi accecante. Un sipario, che si apre e si chiude lateralmente, crea due piani d’azione a seconda che venga aperto o chiuso, svelando e coprendo ogni volta parte della scenografia fissa.
Ogni episodio si trasforma in quello che segue senza sosta, accompagnato dalle immagini che scorrono nel cerchio sospeso sulla sinistra: appaiono catene di dna, i volti dei ballerini che danzano creando un gioco di specchi, un embrione, il mondo, parole bianche su fondo nero che sembrano un codice che si combina in mille modi diversi.
Le luci attraversano lo spazio come linee, laser che tagliano lo spazio invisibile e mostrano la sua profondità atmosferica, rendono la scena a tratti rarefatta, a tratti virtuale.
Il suono del pianoforte e del violino si presenta con temi celeberrimi, creando delle contrapposizioni particolarmente salienti tra suono e immagine, tra suono classico e suono digitale, sintetico.
Sulle note della Morte del Cigno, melodia tratta dal penultimo brano del Carneval, suite “zoologica” e umoristica di Saint Saens, per un assolo coreografico creato nel 1905 da Michel Fokine appositamente per la straordinaria Anna Pavlova, appare il video dell’interpretazione di Natalia Makarova accanto alla quale danzano con una delicatezza sconcertante tutte le ballerine della compagnia.
è la citazione delle citazioni: il cigno, animale trasformista per eccellenza che da brutto anatroccolo si trasforma in un incanto bianco, la melodia che nasce come una variazione su un tema del Carneval, l’immagine del video in bianco e nero affiancata dalla visione cyberg della scena, e infine Ovido nel Libro secondo (verso 376) : ”Cigno è trasformato in uccello mai visto, che non si affida nè al cielo nè a Giove”.
Sul finale tutto il corpo di ballo è impegnato a danzare sulle note della Sonata op.5 n.12 di Arcangelo Corelli: 23 variazioni virtuosistiche in re minore sul tema di danza ungherese “La Follia”. Sembra che le parti solistiche e quelle accompagnate dal basso di violone, organo o cembalo corrispondano a diverse formazioni sulla scena: i “tutti” e i “soli” della partitura corrispondono ai “tutti” e ai “soli” del corpo di ballo. I corpi si muovono vestiti di nero su uno sfondo fucsia, la sincronia dei movimenti con la musica è impeccabile, perfino sugli abbellimenti più elaborati e fantasiosi. Il virtuosismo sfrenato del violino sfida le capacità tecniche dei danzatori, la musica barocca esige una perfezione misurata, una tecnica attenta e meticolosa che non mancano di stupire.
Non esiste una narrazione unica, esiste una rete di strade che si intrecciano tra di loro e fluiscono l’una nell’altra, il tempo sembra a tratti scandito dall’alternarsi dei fondali, ma poi improvvisamente si riflette su un passato lontanissimo, o su una sonorità settecentesca, ogni cosa sembra essere la citazione di quanto appena visto, ma i contorni dei riferimenti si fanno sfumati, oppure netti, quasi azzardati.
Ovidio, Saint Saens, Corelli, la mitologia greca, le protesi del corpo, il rimando alla body art, ad un corpo post-umano, il riciclo dei materiali, la commistione di luci, video, suoni digitali, il tema della clonazione , il dna, la scenografia astratta: un miscuglio kitsch, ma non privo di stimoli.
è forse proprio questo kitsch che ben rappresenta questa dimensione contemporanea, dove ognuno, con la sua storia, si muove e sopravvive cercando di costruirsi un percorso di senso. Ma è proprio questo percorso di senso ha la capacità di assumere ogni giorno un colore, un’inquadratura, un’interazione, un aspetto differente e sembra voler ripetere incessantemente che niente dura per sempre e niente finisce per sempre. Tutto è in continua trasformazione. |
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