SQUARE MAP OF Q4
Rafael Bonachela
Nero. Proiezioni pixelate frantumano i corpi dei danzatori immobili, appena
comparsi sulla scena spoglia.
Tre uomini e tre donne: indossano costumi bianchi aderenti, dal taglio
asimmetrico, essenziale.
Nessuna scenografia: solo il disegno di uno schema bianco per terra, che
individua delle zone evocative, legate ai ricordi, alla storia e
all’interpretazione dei danzatori; una sorta di mappa, come suggerisce il
titolo dello spettacolo, ma di cui non abbiamo la legenda, di cui non
possiamo condividere le indicazioni.
Ai lati del palco sono disposte sei sagome rettangolari di colore rosso,
rispettivamente tre per ogni lato, che contengono i proiettori di immagini e
di luce: segno che le strutture necessarie all’ interazione con le
tecnologie non sentono alcun bisogno di essere celate, anzi, vengono poste
sullo stesso piano dei danzatori.
Il silenzio lascia il posto ai suoni minimali della musica digitale, che a
loro volta vengono sostituiti da rumori graffianti, interrotti dal suono
sinuoso di un violino, da una composizione dissonante per pianoforte, dal
canto degli uccelli, da una voce lirica che penetra dove la luce, la scena e
lo sguardo non hanno accesso.
C’è un ritmo dei fenomeni di luce, un ritmo dei movimenti del corpo, un
ritmo sonoro: c’è l’eco di un’armonia lontana ma mai assente, sempre nuova,
che non si ripete, non torna mai uguale. Nessuna cadenza regolare, nessun
battere ritmico scontato ma non per questo privo di logica: lo dimostrano le
lampadine disposte sopra la scena come se fossero la tastiera di uno
strumento, che si illuminano seguendo uno schema ben preciso. Ciò che si
dispiega dinnanzi ai nostri occhi è qualcosa che segue un ritmo diverso dal
nostro, che si svolge in una temporalità parallela. In questa commistione di
luce, suono, movimento e coreografia dominano leggi intime, legate a
qualcosa che possiamo condividere solo in apparenza, ma che non ci è dato
comprendere fino in fondo: è un viaggio nella dimensione personale del
ricordo, dell’infanzia, del segreto.
I corpi si fanno strada attraverso la luce, la luce diventa un fascio rosso
in mezzo alla scena, i movimenti diventano concitati, veloci, convulsi, e
subito la luce torna bianca, i movimenti lenti, i danzatori si schiacciano
sul pavimento, o forse sono proprio le luci che, disegnando delle griglie
sulla scena, li spingono verso il basso. Arriva il suono forte del
temporale, e poi il violino, e poi la voce lirica, suadente, di donna, che
accompagna un passo a due: i corpi all’inizio non si toccano, ma è la musica
che dice, che parla prima del contatto che deve venire.
Gli stessi corpi sembrano perdere matericità venendo utilizzati come schermi
mobili per la proiezione di immagini scomposte e frammentate: compaiono
volti di donne e di uomini sulla pelle in movimento, compaiono fotografie in
bianco e nero sui corpi che stanno agendo in diretta. Passato e presente si
mescolano sui soggetti con una raffinatezza che non ha bisogno di indizi e
nemmeno di precisazioni.
è un continuo domandarsi cosa
viene prima: la musica, la coreografia o le luci? Sono le luci che inseguono
i corpi in diretta o sono i corpi che ricorrono le luci, che da queste si
fanno appiattire al suolo? Sono i movimenti lenti del corpo che danno il
“la” all’entrata del violino o è la musica penetrante che rende i movimenti
più languidi?
Sono i corpi che misurano lo spazio? O è proprio quest’ultimo che modella i
corpi, che suggerisce loro le direzioni, che li obbliga ad un percorso?
Cosa vedono gli occhi dei ballerini dal corpo frantumato in immagini, pixel
e luci che li trapassano come laser? E cosa si vede dalla platea?
Quale ritmo crea questa commistione di eventi? E quale ritmo sentono nella
loro testa i danzatori?
In mezzo a tante domande lo spettatore si trova dapprima trascinato in
sequenze di tensione progressiva, con un ritmo sincopato sul quale sembra
impossibile sintonizzarsi, e successivamente invitato alla vista di
arabeschi di passi e di prese dalla delicatezza sublime.
Ad un tratto lo spettacolo sembra essere terminato: i danzatori escono, si
alzano le luci in sala, scende il silenzio, solo le lampadine sopra il palco
continuano la loro musica silenziosa, fatta di luci pulsanti, dalla
combinazione puntuale ma segreta. Pochi minuti per riprendere fiato e le
luci calano di nuovo, ci si trova immersi nel suono dell’acqua, poi nel
dialogo con il violoncello, nel grido delle linee e delle traiettorie
disegnate dalle luci, si crea una sovrapposizione di livelli che si
intrecciano tra loro con una precisione minuziosamente calcolata: inizia il
passo a due maschile.
Non si ha l’impressione che sia ricominciato qualcosa di nuovo, ma piuttosto
che la linea temporale si stia riavvolgendo su se stessa seguendo la scia
del ricordo, della memoria, di qualcosa che ancora non è stato detto, non si
è riusciti ad esprimere, o non si conosce: che appartiene ad un disegno
esclusivamente intimo.
Si ripresenta qualcosa di già visto, viene ripetuto un frammento, come se
fosse un ricordo involontario, che riaffiora dall’inconscio. E di nuovo i
corpi vengono performati dalla luce, trapassati dal suono, il volume si fa
alto, quasi assordante e all’improvviso torna il violoncello, le luci
tagliano la scena come lame: ogni passaggio è calcolato con una precisione
impeccabile.
Tutto è essenziale: la ricchezza dello spettacolo è racchiusa nell’eleganza
attenta e raffinata con cui tutti i frammenti di suono, luce, colore e
coreografia vengono intrecciati e contrapposti tra loro in un unico fluire
inarrestabile.
Tornano i pixel dell’inizio, i due corpi rimasti sulla scena si allontanano.
Un ultimo suono. Nero. |