la biennale di venezia 2008
Biennale architettura 11.

esperienza ai giardini
 

di Gabriele FRANCIONI

An-architettura?

La mia riflessione parte da un interrogativo sospeso a cui non sono capace di dare una risposta: cosa mi ha spinto ad affrontare il tema dell’Architettura tentando di definirne la natura? Da spettatore munito di sguardo consapevole e pieno d’aspettative mi sono immerso negli spazi dell’11.Biennale di Architettura illudendomi di riuscire a cogliere i caratteri architettonici peculiari di ciò che si trovava in mostra.
Dopo innumerevoli tentativi ammetto di non esserci pienamente riuscito, ogni cosa al suo interno si è rivelata più complessa di quanto appariva superficialmente e soprattutto poco idonea al contesto di cui si pensa debba essere portavoce. Credo sia determinante, in seno alla fruizione stessa delle opere, l’influenza esercitata sul pubblico visitatore dal contesto che in un certo modo ne determina il contenuto: ci imbattiamo infatti in “oggetti” per definizione architettonici solo in quanto inseriti all’interno del luogo specifico della Biennale Architettura. Si tratta dunque di una riflessione nata dalla difficoltà d’approccio a questa Biennale e al tema che intende sviluppare.
Cosa succederebbe invece se, aldilà di ogni pregiudizio o aspettativa, ci limitassimo ad esperire lo spazio che ci avvolge, facendone vera e propria esperienza fisica, individuale, soggettiva e provando a rispondere alla provocazione posta dallo stesso titolo della Biennale “Out there: beyond building” ?.
A ciò segue la messa in dubbio della nozione d’architettura strictu sensu, intesa come mera costruzione, spostando così radicalmente l’oggetto di riflessione e d’indagine: in fondo architettura è pure il tema dello sguardo creatore di percorsi assolutamente individuali. Un' esperienza psicogeografica limitata al chiuso dell' Arsenale, se vogliamo.
Un atteggiamento che ai miei occhi appare “decostruttivo” guida la sperimentazione architettonica di questa Biennale, la quale si fa testimone della fluidità di questo mondo dove ogni confine viene annullato. L’invito di Aaron Betsky, direttore della biennale, è stato infatti quello di generare una nuova concezione d’architettura più vasta ed ampliata, che si nutra dell’ibridazione con i linguaggi delle altre discipline.
Sembra questa l’occasione adatta per parlare di un’architettura che sia spazio per la vita sociale degli individui, che sia fatta al tempo stesso di sensibilità, di una condizione immateriale, effimera, non necessariamente costruita, e perciò an-architettonica.

U.S.A.
Analogamente possiamo affermare che essa è anche “comportamento”, come viene esemplificato dal Padiglione degli Stati Uniti: un orto è rsituato dentro il recinto interno a testimoniare la volontà di abolire l’edificio architettonico già presente, insieme a tutta la sua retorica museografica. Grazie ad un tipo d’intervento che riconosciamo appartenere al dizionario dei procedimenti “artistici”, la nostra attenzione si rivolge ora alle intenzioni e alla poetica-guida del progetto. Inoltre notiamo interposto tra il padiglione e lo spazio esterno una sorta di diaframma ad indicare forse una separazione, una rottura.

Latvia
Un’attitudine analoga va letta nel Padiglione della Lituania. Esso consiste di un tubo metallico collocato in un luogo di passaggio del pubblico: scultura che sfugge la sua dimensione oggettuale ponendosi come enunciato architettonico. Siamo davanti a un’architettura che s’interroga su se stessa, che si materializza come solo “spazio” , quello che circonda il fruitore e che lui stesso occupa. Vediamo che la questione appare qui ribaltata nella procedura e nella modalità di fruizione, in quanto in uno spazio così articolato il pubblico diviene il vero oggetto dell’esperienza che l’architetto/artista gli organizza intorno.

La Biennale apre quindi un dialogo virtuoso tra le arti
“Interdisciplinareità”, dunque, come carattere predominante e distintivo della proposta di Betsky, in grado di fungere da piattaforma comune alle più svariate sperimentazioni nazionali. Ne deriva che stavolta non ci troviamo più di fronte agli allestimenti di riproduzioni in scala d’edifici (modellini o plastici), piuttosto a vere e proprie istallazioni in senso strettamente artistico come quella firmata dal noto binomio Herzog e De Meuron al Padiglione Italia.

Significativa di una rinnovata attitudine alla materia è la presenza nella sala introduttiva del Padiglione di una struttura leggera che ci appare costruita su relazioni. Si tratta infatti di un sistema di oggetti (sedie) collegati tra loro, che vediamo librarsi in aria restituendoci l’idea di uno spazio-esperienza. È un invito a sperimentare l’istallazione stessa fatta di un dentro e un fuori che vediamo fondersi grazie alla possibilità di passaggio da parte di un pubblico che così lo determina.

Belgio, Portogallo e Giappone
Infatti è dall’apporto delle arti visive sulle riflessioni interne all’architettura contemporanea che nascono i lavori dei Padiglioni Belgio, Giappone, Portogallo.
 

Il padiglione belga si fa maggiormente notare per via della struttura metallica, solida e al tempo stesso legger,a che costituisce una seconda facciata; notiamo come essa si riveli elemento dialogante con la prima e con lo spazio esterno che l’accoglie. Tra l’edificio preesistente e le facciate aggiuntive, tra le stanze interne e il giardino esterno, esiste un’enfatica interazione il cui scopo sembra essere quello di creare uno spazio fluido, non delimitato, volto a capovolgere in questo modo il loro tradizionale rapporto. Di conseguenza, il progetto non coinvolge piani e modellini, ma uno spazio che appare “vuoto”, svestito. Il tutto è rafforzato dalla presenza di coriandoli sparsi un po’ ovunque ed evocativi di una leggerezza del “contesto” diafano (per via della luce bianca diffusa), cui partecipiamo e a cui, con la nostra sola presenza fisica, conferiamo immanenza e pienezza.
Altro curioso aspetto dell’intervento realizzato per il Padiglione Belgio dallo studio Ofice Kersten Geers David Van Severen (Bruxelles) è il titolo “ 1907…after the party”: la data riportata fa riferimento da una parte all’anno in cui fu costruito il padiglione e dall’altra al volume interno dell’edificio in metri cubi, alludendo così anche ad uno spazio fisico e concreto.
È così che attraverso la concezione spaziale espressa dal progetto e dalla sua scrittura museografica si è portati in prima istanza a riscoprirne il luogo fisico, l’edificio in se, la sua architettura spoglia intesa come costruzione.

Di segno opposto appare la proposta del Padiglione spagnolo.
Esso, che con i suoi progetti sembra apparentemente esaudire le aspettative del pubblico, rivela invece ben poco di veramente architettonico.
Ogni cosa al suo interno appare stupefacente, avanzata tecnologicamente, “bella” e fatta per essere ammirata; il linguaggio utilizzato è quello classico che prevede l’esposizione di foto giganti dei progetti, piante dettagliate degli stessi, modellini ben curati, una sala circolare e buia, quella centrale, ricoperta di schermi al plasma. Esiste architettura in questo spazio ? forse assistiamo solamente a qualcosa che ne vuole essere la traduzione, puro rimando ad essa, che invece vive altrove, semplice e corrotta manifestazione di un’idea d’architettura. Notiamo come la ricerca della perfezione in tutto ciò che viene mostrato insieme alla tecnologia avanzata messa qui al servizio della presentazione di “architetture”, metta da parte il contenuto più autentico, la riflessione sull’essenza dell’architettura.

Quella di Junya Ishigami al padiglione giapponese può considerarsi la proposta più suggestiva.
I suoi edifici in scala 1:1, “greenhouses”, sembrano rappresentare un inno alla fine dell’architettura del mattone.
Fatti d’effimera presenza fisica con i loro trasparenti volumi, occupano le bianche pareti dello spazio interno. La peculiarità e virtù dell’interno “decorato” consiste nella capacità di rinviare chiunque lo ammiri all’esterno dei giardini-serre come ad un tutto unico. Ci si trova a fare esperienza dunque di uno spazio reversibile e manipolabile, dove ogni cosa sembra esistere simultaneamente: le piante dentro e quelle fuori, gli elementi d’arredo, l’architettura, la topografia…Tutto si colloca all’interno di uno stesso percorso attraverso cui lo sguardo viene guidato; esterno ed interno non si distinguono più, i loro confini sono diventati fluidi. L’abitabilità dell’esterno lo testimonia, esso è infatti pensato anche come spazio domestico popolato da mobili.

Proseguendo col nostro percorso, entraimo nel Padiglione del Portogallo.
Esso si affaccia sul Canal Grande: ecco una superficie specchiata che nasconde l’edificio retrostante, rivelando invece immagini in movimento del paesaggio circostante riflesse su di essa.
Risultato notevole, quello prodotto dalla collaborazione tra architetto e artista, in questo caso Eduardo Souto de Moura e Angelo de Sousa con il progetto “Qua fuori. Architettura inquieta”.

Appare contenuta già nel titolo un tipo di proposta che intende affrontare l’esperienza di un’architettura contemporanea marcata dalle questioni dell’effimerità, della transitorietà, dei continui movimenti spaziali e temporali. Ancora una volta ci troviamo immersi in uno spazio interno che ci appare vuoto, transeunte: siamo chiamati ad interagire e fare esperienza di una realtà riflessa e riflettente dove pareti specchiate sono capaci di restituire unicamente la nostra immagine. Dunque la sensazione che può derivarne è duplice: da un lato ci sentiamo avvolti completamente, dall’altro ci riconosciamo soggetti artefici nel conferire presenza e sostanza a quel luogo con cui inevitabilmente dialoghiamo.

Una seconda sala ci suggerisce invece la percezione della struttura e dei materiali che sostengono il rovescio della facciata. A questo proposito risulta centrale il ruolo affidato allo spettatore, chiamato in causa a partecipare all' opera, divenendo conditio sine qua non della stessa.

Si tratta dunque di luoghi, creazioni di spazi artificiali e non, i quali vivono in virtù della nostra presenza fisica che li attiva e senza cui non avrebbero ragione di esistere. Questo tipo d’approccio penso faccia riferimento pure ad esperienze di “arte relazionale” a cui è insita l’intenzione di ampliare i confini dell’opera, difficili da definire per via dei rapporti che si instaurano tra essa ed un contesto specifico a cui inevitabilmente si relaziona.

Germania
Il continuo “crossover” tra arti visive e architettura non sempre porta a risultati di sicura eccellenza, come nel caso del Padiglione tedesco. Infatti, al vocabolario artistico contemporaneo si è attinto direttamente e senza mediazioni facendo un uso a mio parere eccessivo e a tratti improprio di originali istallazioni.

Francia

Padiglione Francia: impossibile non apprezzare la freschezza della sua scrittura museografica, nonostante appaia complessivamente poco innovativo nella proposta.
“Generocité”, questo il nome del progetto, intende portare alla luce un interrogativo cruciale ai nostri giorni cioè cos’altro può donare l’architettura alla città, specialmente in termini di spazi pubblici. Quello che appare uno slogan viene dichiarato un valore ponendo in contrapposizione dunque “generous” a “generic” . La proposta rischia di essere percepita a tratti come utopica, pur ponendosi indubbiamente come spunto di riflessione.
Al suo interno, nessun criterio astratto o idealistico: al contrario vediamo dominare un principio di realtà che spazza via ogni illusione di cambiamento; il padiglione appare infatti generoso e denso già in termini di contenuto con un totale di 100 progetti: 55 progetti già realizzati e 45 da realizzare. Ci troviamo di fronte ai “nostri” plastici di progetti architettonici accompagnati da rendering esplicativi.
Assistiamo però ad una novità che ha reso la fruizione interessante perché interattiva: i plastici si trovano inseriti all’interno di teche progettate ad hoc che è possibile muovere autonomamente, far girare per coglierne meglio il contenuto.

Irlanda

Altro esempio innovativo di un’attenzione rivolta più alle modalità di “display” che al suo contenuto a mio avviso poco elaborato, è quello del Padiglione Irlanda, posto al di fuori del sito canonico della Biennale, in una sede veneziana come il Palazzo Giustinian Lolin.
“The lives of spaces”: l' enunciazione del titolo ci riporta in un territorio inesplorato e dal grande potenziale, situato aldilà di ogni “classica” concezione di architettura.
Emerge da questo progetto un ritratto “spaziale” della società irlandese. La suggestione che ci viene offerta dal concept del progetto è forte, si parte dal fatto che allo stesso modo in cui gli spazi possono contenere tante vite così possono ugualmente viverne altrettante essi stessi.

Polonia
Proseguendo, la dimensione temporale viene nuovamente contemplata nella proposizione del Padiglione premiato, quello polacco.
Alla base troviamo la sfida alla fede nell’eternità e nell’immutabilità dell’architettura.
Per conferire sostanza a questa tesi si fa appello al concetto di “modernità liquida” preso in prestito da colui che la teorizza, Zygmunt Bauman.
Il titolo “Hotel Polonia, the afterlife of buildings” può essere letto come un’intelligente provocazione che vuole ispirare la riflessione sulla “durabilità” dell’architettura e sui suoi infiniti usi passati e futuri.

Tutto quello che abita lo spazio del padiglione parla lo stesso linguaggio nei termini sia di contenuto che di modalità scelta per mostrarlo e renderlo così accessibile. È indubbio infatti che esista un dialogo tra i sei edifici (presentati in immagini fotografiche) riportanti i segni dell’implacabile passare del tempo, e lo spazio stesso del padiglione sottoposto ad un intervento che gli conferisce una vita alternativa, tramutandolo in un posto per dormire. Al di là della soluzione scelta, più o meno apprezzabile, il messaggio si rivela chiaro a livello di contenuto e in linea con il tema che questa Biennale intende sviluppare: Architecture Beyond Building. La vita di ogni edificio inizia infatti quando si consegna per l’uso; da quel momento l’architettura è anche quello che le persone e il tempo fanno dell’edificio.
 

 

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Biennale architettura 11.
esperienza ai giardini