64.ma mostra internazionale d'arte cinematografica |
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INTERVISTA A Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio e Andrea Porporati PROTAGONISTA DI “il dolce e l'amaro” DI Andrea porporati
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KINEMATRIX: Cosa vi ha spinto ad accettare i vostri ruoli ne IL DOLCE E L’AMARO? LUIGI LO CASCIO (LC): Uno fa un personaggio perché un regista gli propone una storia interessante, che lo attrae, non necessariamente per una sfida verso se stesso o altri. Al di là dell’ambientazione de IL DOLCE E L’AMARO, il tema della mafia etc, mi piaceva lo sguardo di Porporati, che avevo apprezzato ne IL SOLE NEGLI OCCHI. Inoltre c’è un movente stilistico che mi aveva stimolato, cioè il dover trovare una sintesi tra la complessità autoriale dell’assunto e la semplicità del modo in cui riuscire a confezionarlo, per rispetto anche a un pubblico vasto che poi l’avrebbe dovuto fruire.Qui la semplicità esteriore contiene qualcosa di molto articolato.
Anche Molaioli ne LA RAGAZZA DEL LAGO ha utilizzato il cinema di genere per veicolare qualcosa di più importante… LC: Io credo che ogni autore vorrebbe che le proprie opere venissero lette in vario modo a partire da una letteralità che poi si apre a diversi significati, simbolici, metaforici. Credo che anche qui, quanto più una storia ha delle tinte forti, tanto più può aprirsi a significati altri…
Pensando alle critiche subite da Scorsese in America, sull’eccessiva indulgenza verso la mafia e la violenza da lei agìta, non è per caso che si debba restringere il campo d’analisi e accettare invece che la mafia è l’unico o uno dei principali topoi narrativi che forniscono spunti straordinari riguardo ai legami di sangue, ai patti che vengono rotti col sangue, ai tradimenti e quindi debba essere accettato come irrinunciabile luogo da percorrere per attraversare la complessità di QUELLE tematiche ? ANDREA PORPORATI (AP): Sicuramente sì, anche questo è vero. La mafia è l’unica cultura rimasta che vive ancora idealmente nel secolo scorso, meglio, nell’800, o che addirittura ha una matrice veterotestamentaria. Tra l’altro è un mondo dove ogni decisione è una questione di vita o di morte, per cui è un ambiente narrativo privilegiato, da sempre, per poter portare all’estremo situazioni in cui anche uno spettatore qualsiasi per il quale non sono questioni di vita o di morte, trovi rispecchiate scelte quotidiane che affronta nella sua vita. La longevità del genere gangster-movie è dovuta all’essere oltre ogni dato sociologico: è metafora di una parte della natura umana. Un film è riuscito se racconta qualcos’altro rispetto a quello che passa sullo schermo. Amelio dice sempre che esiste la storia di sopra e la storia di sotto, più importante della prima. Se un film non riesce rimane solo un gioco, un gioco di trama e personaggi.
Oggi come oggi la Mostra del Cinema di Venezia, pensando a STILL LIFE che ha vinto l’anno scorso e altrimenti nessuno l’avrebbe visto, è ancora un festival del cinema d’autore, guardando alla quantità di star che è arrivata in questi giorni ? AP: Secondo me il genere cinema d’autore non esiste: esistono i film riusciti e non riusciti. Poi penso che sono in Italia sia diventato una categoria merceologica, come l’horror. Spesso truffaldinamente molti registi firmano sceneggiature che non hanno scritto, da cui l’equivoco e l’ambigua definizione del cinema d’autore. Se un film mantiene quello che promette è grande cinema. Hitchcock, autore mainstream, è un autore sano, coerente. Venezia dice “Mostra d’Arte Cinematografica”, cioè cinema di poesia più che di prosa e questo non c’entra col fatto che un regista sia autore/scrittore del proprio testo ed affermi quindi una poetica solo sua. Anche noi registi possiamo vedere certi film bellissimi solo ai festival, il ché ne giustifica l’esistenza. A me è successo con Marra, mio concittadino, con cui ho condiviso la visione di splendide rare pellicole solo in sperduti festival finlandesi o vicini al polo nord…! Tornando al cinema d’autore, devo dire che in questi ultimi 20 anni l’Italia ha subito un cambiamento antropologico spaventoso difficile da metabolizzare ed esprimere attraverso il cinema. I registi si sono trovati spiazzati, perché lo scarto tra loro e i Bellocchio o Bertolucci finiva coll’essere maggiore di quello che c’era tra questi ultimi e i loro “nonni” artistici.
Qualcuno sostiene che i grandi autori dovrebbero allenarsi col documentario, quindi iniziare coi lungometraggi… AP: Io penso che IL MIO PAESE di Vicari sia il film più bello visto di recente, ma non penso sia obbligatorio per tutti partire dal documentario. Possono rimanere due percorsi paralleli.
Gifuni e Lo Cascio si trovano spesso a recitare in contesti corali in cui siete coprotagonisti tutti però sul proscenio (LA MEGLIO GIOVENTù, I 100 PASSI, BUONGIORNO NOTTE). Come ve lo spiegate? LO: Credo dipenda dalla tradizione del gruppo teatrale alternativo (tipo Raffaello Sanzio o Fanny & Alexander) rispetto allo schema capocomicale italico piuttosto inglese o tedesco, per cui Amleto può fare l’alabardiere allo spettacolo successivo. Nel senso che il detto “non esistono piccole parti ma piccoli attori”…agire in un contesto corale è decisamente più formativo. Con Fabrizio abbiamo avuto come maestro Orazio Costa e uno dei principi fondanti del suo lavoro era proprio quello sul CORO, come essenza del teatro. In Occidente il teatro nasce dallo spirito corale, danzante di un gruppo, dal quale esce il singolo… FABRIZIO GIFUNI (FG): Sono assolutamente d’accordo con Luigi, vista anche la nostra comune formazione con Costa. Passavamo, con lui, anche 7/8 ore a provare uno stesso, unico personaggio coralmente, il ché può portare anche alla pazzia... è una cosa affascinante dal punto di vista tecnico, con lo studio e l’armonizzazione delle diverse gradazioni delle voci, ma lo spirito profondo di quegli esercizi lo abbiamo capito solo col tempo. Passare tanto tempo a recitare tutti la stessa battuta nel coro, crea un’energia incredibile, dalla quale poi si parte con il distacco, la separazione di un attore, cui seguì un altro distacco e dalla tragedia si passò al dramma. Oltre a ciò è un grande allenamento all’idea che si parte tutti dalla stessa condizione, al di là di ogni retorica o atteggiamento fasullo: contano le occasioni, ma non è un caso che, come dici tu, tutto il mio cinema sia articolato così. Io ho sempre alternato un ruolo da protagonista a due partecipazioni minori etc. Penso che questo sia un metodo straordinario, per quanto, ovviamente, possa essere stressante e faticoso fare 35 film in cui hai solo un paio di battute. Ritorna il discorso di Luigi: se c’è un allenamento autentico, come nelle compagnie inglesi c’è la rotazione, per cui chi fa Amleto poi farà becchino oppure Orazio, rimani con i piedi per terra, eviti di entrare in graduatorie fasulle, come primo attore, secondo attore, caratterista etc. Sempre con Costa, avendo fatto 3 anni di lavoro solo su AMLETO, bisogna dire come fosse straordinario notare le sue scelte per la parte di Amleto: prendeva gli attori fisicamente più caratterizzati, cui qualunque altro regista avrebbe assegnato la parte del servo. E poi il nostro lavoro è fatto principalmente di ascolto e abbandono, oltre che di “modestia” e coralità. Al cinema, con l’attenzione verso i piani d’ascolto, questo discorso viene sviluppato paradossalmente ancora meglio rispetto al teatro. Non si limita tutto al “dire la battuta”, ma esistono canali molto più segreti di comunicazione.
Nikki Beach, Lido di Venezia, 08/09/2007
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