64.ma mostra internazionale d'arte cinematografica |
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INTERVISTA A JAUME BALAGUERò/PACO PLAZA registi di "rec"
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Con REC (2007, Spagna, 85') i due registi spagnoli J. Balaguerò e P. Plaza sono approdati al Lido aprendo in modo inconsueto le danze della film competition. Da pochi anni infatti il cinema horror è entrato ufficialmente nella selezione del festival, soprattutto grazie alla lungimiranza del suo direttore Marco Müller, permettendo a film bizzarri come questo di essere apprezzati fin dalle prime proiezioni. Ad una occhiata superficiale “Rec” non sembra tanto diverso dalle decine di horror triti e ritriti che affollano le multisale estive. Per il suo programma televisivo, la presentatrice Angela Vidal (Manuela Verlasco) segue la missione di un gruppo di pompieri impegnati a salvare una vecchia signora da un attacco isterico. Ma arrivati lì il gruppo di inquilini del palazzo, compresi Angela e Pablo (il suo cameraman), restano confinati in quelle mura a causa di un’epidemia sconosciuta che cannibalizza chi resta contagiato. Niente di nuovo allora. Zombie affamati, cannibalismo, sangue e smembramento dei corpi, e poi urla, epidemia e terrore del contagio. Si sa, in modo ancor più prorompente dopo l’undici settembre, il classico zombie-movie ha subìto una lieve deviazione di rotta: dai raggi malefici provenienti da altri pianeti (la primissima, abbozzata causa all’inspiegabile epidemia che trasforma tutti in zombie messa in gioco dal film-manifesto del New Horror Night of The Living Dead di Romero) siamo passati nei decenni a digerire l’infezione di massa autoprodotta, al contagio casalingo e alla congiura universale per nascondere chissà quale catastrofe imminente. E anche qui nulla di nuovo. Ciò che distingue il film dei due spagnoli è la modalità con cui arriviamo a questo risultato. Uno script quasi del tutto in-progress (coerente con il coefficiente di imprevedibilità insito nella modalità televisiva in diretta) che ha spinto film e programma tv finzionale ad entrare in immediato contatto, ad influenzare vicendevolmente eventi e personaggi-attori, intrecciando ancora più fittamente la rete di rimandi già sollevata. Cinema nella televisione, medium nel medium, contestazione della rapacità arrampicatrice ma al tempo tesso della necessità di un’informazione trasparente (o almeno veritiera, verrebbe da dire in tempi attuali). Il film è catturato interamente dal punto di vista di Pablo, inglobato all’occhio meccanico come sua protesi senso-percettiva, fino a quando lui e Angela si ritrovano al buio completo. Solo lei, che non ha in mano la telecamera, si ritrova costretta al nero totale, alla cecità assoluta (come confermano i registi nell’intervista). Solo piani-sequenza allora, uno dietro l’altro e pochissimi stacchi tra una scena e la successiva rispettando quasi fedelmente le effettive riprese del film reale e quelle del programma televisivo. Un film dall’esordio piuttosto banale riesce a tramutarsi in un esperimento interessante e degno di nota considerato il delicato periodo che il cinema sta attraversando (ben sintetizzato nell’opera di De Palma portata al festival), una fase di stallo creativo (che poi stallo non è, il problema è sempre l’invisibilità del cinema di un certo valore, ma questa è un’altra storia) in cui la realtà diventa sempre più tangibilmente magma plasmabile e sovrapponibile alla sua ricostruzione mediatica. Fino alla loro totale uguaglianza. Baudrillard aveva ragione a predicare una realtà reinventata dai media e la de-realizzazione del fenomenico? Forse. Gli indici diventano segni e i segni simboli, e risulta più che mai difficile tornare ad una definizione di cinema tout court. E perché farlo? Ciò che importa qui ed ora, attenendoci almeno all’horror, è la quantità sprigionabile di adrenalina che mette in atto. E fin qui il film in questione mette in moto il meccanismo, con un finale ad effetto non male. Niente di più. La parola ai registi.
Considerata la linearità della trama e l’assenza di effetti visivi particolari, in REC l’uso del sonoro riveste un ruolo importante, soprattutto durante l’ultima, cruciale sequenza… PACO PLAZA (PP): Decisamente. Gli effetti sonori hanno costituito il vero problema del film, la parte più complicata e lunga della sua composizione. Durante il lungo lavoro di post-produzione abbiamo impiegato una gran varietà di rumori, sfruttando in massima parte versi di animali che hanno consentito a quello che mancava alla visione di essere completato dall’ascolto. JAUME BALAGUERò (JB): Questo perché a parte la donna che appare nella scena finale e qualche altra singola immagine scioccante, non si tratta del classico splatter tutto sangue e mutilazioni cui siamo abituati. Noi siamo cresciuti con questo genere di film e conosciamo bene l’effetto di immagini simili. E noi volevamo fare qualcosa di diverso. Meno immagini di morte e più atmosfera e realismo. Il problema serio a questo punto diventava come raggiungere l’effetto scioccante. Nell’ultima sequenza del film la Velasco non vedeva assolutamente nulla ed era realmente terrorizzata; l’unico ad avere campo visivo era il cameraman e quando anche lui cade a terra morto è solo la camera, l’occhio meccanico, a sopravvivere a quello umano. Ma cosa più importante, gli attori sono stati tenuti all’oscuro di quello che sarebbe successo nella stanza delle riprese. Nessuno sapeva chi o cosa sarebbe apparso, quindi la situazione di tensione ricreata era praticamente reale, vera. E questo era esattamente il risultato che volevamo ottenere.
Uno dei motivi immediatamente riconoscibili nel film è la contestazione dell’informazione mediatica, i Reality e la televisione. Film di denuncia o entertainment? PP: Entrambi. Era chiaro quanto il film si schierasse contro lo sfruttamento mediatico e l’estetica dei reality shows, ma è anche vero che tenta di riproporre una situazione di “terrore realistico” sottoponendo gli attori a stress reali e a shock ripetuti. Un film horror che si rispetti in fondo dovrebbe avere entrambe le componenti, come quelli con cui siamo cresciuti, che poi erano più sociali e politici di quello che sembravano. Noi facciamo film horror anche perché amiamo i film horror ed essere spaventati. L’entertainment non può mancare.
Molte le citazioni riconosciute nel film, una per tutte Blair Witch Project, prima pellicola a mostrare il terrore attraverso il mezzo amatoriale e l’esperienza fintamente documentaristica dei protagonisti. Confermate l’influenza di questo film su REC? JB: Beh sì, certo. Ma quando ci fanno questa domanda la verità è che non c’è mai una risposta precisa e definitiva. Nel senso che Blair Witch è un esempio calzante, ma non si dovrebbe dimenticare quanto il cinema horror soprattutto dai 70s in poi, sia divenuto parte integrante della nostra cultura e del nostro immaginario. Quello che ci portiamo dietro è più un inconscio collettivo di immagini e suoni, e una serie potenzialmente infinita di citazioni (impossibili da ricordare e riconoscere tutte), non un singolo film.
Il vostro film si orienta verso il “docu-fiction” o il “mocumentary” ma il cinema horror di ultima generazione si sta distinguendo anche con un sottogenere tutto diverso, quello degli adattamenti dai videogame, penso immediatamente a Silent Hill, uno degli esperimenti più riusciti. Come vi ponete rispetto a questo diverso approccio all’horror? PP: Il nostro film ha poco o niente a che fare con film del genere. Anche se devo dire che Silent Hill mi è piaciuto molto e rispetto quanti si rivolgono a questo sottogenere fondato principalmente sugli effetti speciali (quindi il budget). Noi facciamo qualcosa di completamente diverso, più orientato verso il realismo e il terrore che scaturisce da situazioni reali. Quando vedo un film tratto da un videogame, soprattutto tanto fedele all’originale come Silent Hill, mi viene subito voglia di giocare più che di guardare il film. Il punto è: che ci faccio qui davanti allo schermo se il mio posto sarebbe dentro a quello schermo, in qualità di da giocatore? è soprattutto per questo che non faremo mai un film come Silent Hill o Resident Evil.
Hotel Excelsior, Lido di Venezia, 30/08/2007
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