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ONE SIDE MAKES YOU LARGER AND ONE SIDE
MAKES YOU SMALL:
Le Black Dahlias di David Lynch
"Ciò che angoscia il soggetto, molto più che la sua morte imminente, è innanzitutto la sua non realtà, la sua non-esistenza. Sarebbe il male minore la morte se si potesse essere certi d'aver almeno vissuto: ora è proprio di questa vita, per quanto peritura possa essere, di cui viene a dubitare il soggetto nello sdoppiamento di personalità. Nella coppia malefica che unisce l'io ad un altro da sè fantasmatico, il reale non è dalla parte dell'io, ma dalla parte del fantasma: non è l'altro che mi sdoppia, sono io che sono il doppio dell'altro"(Clément Rosset in "Le Réel et son double", Gallimard, Parigi, 1976 e 1993). Il problema di Elizabeth Short, la "black dahlia" di Ellroy e De Palma, è quello di non avere vissuto. Durante il suo peregrinare tra Boston, Miami e Los Angeles, veniva sostituita da "n" elizabeth short virtuali, ectoplasmatiche intente a produrre false narrazioni sulla "prostituta" o call girl del Massachusets. L'esistenza le era costantemente sottratta: a Medford si aggirava il suo doppelganger di dark lady stanca della provincia, in California quello di wannabe senza talento. Dopo la morte, la moltiplicazione è continuata senza sosta: dalla cronaca nera, alla letteratura di genere, sino al cinema, infinite dalie hanno invaso l'immaginario collettivo americano per quasi sessant'anni. Ciò che afferma Rosset ci permette di ritrovare una di queste incarnazioni senza corpo in MULHOLLAND DRIVE (2001) di David Lynch: "(...) il personaggio della bruna senza nome (Laura Elena Harring) assume in pieno quell'istanza di spettralità, quell'effetto di survivant-revenant che Derrida sembra porre a fondamento del cinema" (Alessandro Cappabianca in "L'immagine estrema", Costa & Nolan, Milano, 2005). In generale, è la figura femminile vittima dello show-business e da esso violentata sino alla dissoluzione del suo essere "soggetto" a interessare in questi ultimi anni alcuni registi assai abili nel confrontarsi su un terreno più o meno programmaticamente psicanalitico. Lo stesso Lynch in LOST HIGHWAY, 1996 (Renée/Alice), De Palma con FEMME FATALE, 2002 (Laure/Lily, variante esterna rispetto al territorio dei media, presenti solo nelle vesti del fotografo Nicolas Bardo) e Atom Egoyan nello straordinario WHERE THE TRUTH LIES (2005) hanno prodotto una variegata riflessione a più mani sul tema. Sia Camilla/Rita che Diane Selwyn/Betty Elms sono state certamente pensate, o almeno così appaiono, a partire dal cadavere diviso in due di Elizabeth Short. La stessa Laura Palmer è quasi la Short messa a morte in provincia, prima delle fughe verso la metropoli. BLACK DAHLIA "the movie", quindi, si configura come un testo collettivo la cui appendice depalmiana presentata alla Mostra del Cinema è solo il nuovo capitolo, assolutamente non definitivo. "(...)In un film l'astrazione è importante (...). Ciò che si crea è un'estensione di se stessi, e ogniqualvolta crei qualcosa, ti esponi. è rischioso. Come nell'analisi freudiana questo genere di approccio implica la tendenza ad affermare: questo significa quest'altro, poiché facciamo tutti parte del medesimo inconscio collettivo. Certo, ma il punto è che nemmeno se condividessero la medesima linea due psicanalisti si troverebbero perfettamente d'accordo su tutto. Se esiste una scienza esatta, quella non è la "psichiatria"(...)" (David Lynch in " Lynch secondo Lynch", a cura di Chris Rodley, Baldini&Castoldi, Milano, 1998). La premessa appena riportata è necessaria, ma non per escludere a priori la possibilità di analoghi approcci all'opera del regista di Missoula, ma per chiarire che la sua arte non prevede mai l'istituzione preordinata di architetture dell'inconscio a monte di un progetto artistico. Lynch è definitivamente anti-intellettualistico nel modo in cui percepisce il mondo esterno e ce lo restituisce sotto forma di pitture in movimento, spesso afone (ERASERHEAD, il suo primo film, muto), motivo per cui non si può dare in nessun modo una precostituzione di apparati simbolici e una valenza onirica ai lavori che dirige. Questi esistono, ma emergono, per così dire, durante la lavorazione dei film e Lynch li lascia parlare, anzi, crea una pittura sonora concreta all'interno dei quali li accoglie senza interrogazione, che è lecita solo a posteriori. A differenza di De Palma. Interrogato sul percorso creativo di FEMME FATALE, in qualche modo influenzato da MULHOLLAND DRIVE (nonostante i due film siano usciti a distanza di un solo anno), afferma: "(...) Da tempo volevo realizzare qualcosa su una "femme fatale" (...). Però, come prima cosa, ritengo che il noir tradizionale non funzioni più: la fotografia e l'illuminazione stilizzate, il fatalismo degli anni '40...Non viviamo più in quel mondo, così non puoi più "do this stuff as reality". Quindi mi sono detto: bene, metterò tutto questo dentro la sequenza di un sogno. Per me il noir è così: un sogno ricorrente, con archetipi molto definiti che operano all'interno del racconto. La ragazza colpevole che viene perseguitata, che cade..."all kinds of stuff that we see in our dreams all the time (...)". A ben vedere, i due "traum" di MULHOLLAND DRIVE e FEMME FATALE, sui quali entrambi i film si dis/articolano (Betty ricolloca il passato "negativo" dell'esperienza come non-attrice a Los Angeles in una proiezione onirica dove persone e luoghi acquisiscono valenze opposte; Laure vede se stessa in Lily un attimo prima del suicidio e coglie nel sogno il suo futuro, in modo da intervenire costruttivamente su un presente da modificare nei suoi possibili esiti) riflettono proprio questa marcata differenza nell'approccio: Lynch non fornisce risposte, De Palma sa già tutto in partenza e procede per dimostrazioni successive. L'incedere del primo ha una matrice surrealista, modificata da una vistosissima riduzione del mito freudiano, mentre il positivismo del secondo duplica le derivazioni dell'autore de "L'interpretazione dei sogni" come un assioma inconfutabile. De Palma recupera, non a caso, una fortissima connotazione sessuale in FEMME FATALE, che alla luce delle ormai consolidate revisioni della comunità freudiana suonano un po' vetuste o, per come sono trattate nella pellicola, superflue, in particolar modo nella scena del bistrot. Per quanto Gianni Canova si spinga ad asserire che "De Palma sta ad Hitchcock come Lacan sta a Freud", tutto porta a pensare che, semmai, si possa applicare qualche categoria del francese (non a caso vicino a Breton e definito "psicanalista surrealista" all'epoca della pubblicazione delle poesie di Aimée, sua paziente e "malata di mente") ad alcuni momenti dell'opera lynchiana. La stessa predilezione per le potenzialità creative dello stato di malattia accomuna il regista e il filosofo-psicanalista. Possiamo sostenere, in relazione a BLACK DAHLIA come testo composito, che la Elizabeth Short reale (Ellroy è marginale) e le femmes fatales delle pellicole sopra elencate - inclusi LOST HIGHWAY e WHERE THE TRUTH LIES - affrontano il problemos del loro relazionarsi a un contesto mediatico che le rifiuta entrando, secondo modalità più o meno automatiche, in una dimensione onirica che le ridefinisce, il più delle volte con esiti tragici. Le anti-eroine di questo grande recit sono post-adolescenti della provincia americana in fuga da quella linearità unidimensionale, che assicura saldi appigli ancorati a un'etica semplice e primordiale, sprovviste di strumenti psico-intellettuali per relazionarsi con la città degli angeli (Egoyan ne fornisce una declinazione appena dissimile, Miami, per poi tornare in California nei segmenti ambientati nel 1972). è quasi l'intera provincia americana a incarnarsi in esse, corpi desideranti rivolti verso la mecca. Diane Selwyn arriva a Los Angeles all'inizio di MULHOLLAND DRIVE e una luce intensa l'accompagna verso la residenza. Echi di anni '50 ebbri di vittoria (le danze sagomate color pastello) sfumano in una banda sonora declinante verso toni minori, annunciando altro dall'allegria di partenza. Il tremolio della m.d.p sulle indistinte volute rosse e gialle di un lenzuolo di seta scompagina subito i piani del racconto, raddoppiandoli. Un'auto, una limousine con una splendida bruna dal sorriso del tutto simile a Dalia Nera Short, descrive curve su curve: è il segnale che la narrazione entra in un vortice. S'intuisce, come sempre in Lynch, che c'è dell'altro (dietro, sotto; le lenzuola, il testo, etc). Eppure, per tutta la prima parte del film, sembra di stare dalla parte illuminata della luna. Diane (ancora col nome di Betty) entra dal lato giusto della città, mentre la bruna che era nella limousine vi penetra da quello sbagliato: sopravvive a un incidente, anche se di fatto è morta. Scende le colline di Hollywood, sprofonda come un burattino disarticolato nel bosco: è risucchiata nel buco del Bianconiglio. Chiunque sia, non riemergerà più. Dopo sapremo: Diane ha commissionato il suo assassinio e la resuscitata non è altro che il fantasma della vera Camilla (seconda tranche del film) che s'insinua nel sogno di quella. L'abilità di Lynch è di seppellire i segni dell'evidenza, lasciando intuire poco della dimensione "traumatica": Betty e Rita sembrano reali, anche se alla solare riuscita del provino dell'una si contrappone l'ansiogena ricerca dell'identità perduta dell'altra. Lynch ribalta lo schema di LOST HIGHWAYS, dove la "vita come avrebbe dovuto essere" compare molto avanti nel racconto. Diverse anche le modalità dello scompaginamento narrativo agite grazie alla metamorfosi psichica di due soggetti: da una parte Fred, musicista losangelino, entra in crisi dopo aver ricevuto varie videocassette anonime degli interni dell'appartamento in cui vive con la splendida e ambigua moglie (infedele?). A suo modo, anche Fred è colpito dal male ambiguo dei luoghi di quella città, mentre la donna è più adattiva (infatti qui la componente femminile è più simile alla dark lady "vincente", attiva, in stile Barbara Stanwick) e reagisce. Capiremo che, similmente a Diane, ha commesso un delitto, lasciandosi dietro un indicibile corpo in frammenti (ovviamente la moglie). Gli assassini, Fred-Diane, ridisegnano gli eventi con processi psichici analoghi: l'uno è protagonista di una FUGA PSICOGENA che lo riproduce in un'altra persona (più giovane, attraente), l'altra di un TRAUMA. Entrambi i film mettono insieme una teoria di personaggi contigui al mondo del cinema, che pare una deriva di ciò che essi si aspettavano: attricette che in realtà tirano avanti come cameriere, quasi-star del porno amanti di produttori mafiosi, registi traditi etc. Una Wonderland ribaltata dove crediamo d'intravedere la stessa Elizabeth Short mentre incontra il produttore che la dispone, insieme ad altre wannabees, a decorare i lati della piscina o quando scrive alla madre del provino col regista famoso, che però non avrà mai luogo. Se Fred-Diane sono attivi, la Short è passiva (sarà vittima), ma produce anch'ella una forma di rielaborazione psicotica dell'insopportabile mediocrità cui l'aveva costretta la metropoli: pare che molte delle lettere spedite a Medford contenessero una consistente quantità di falsità, dove "le cose andavano bene" e il progetto della ragazza andava strutturandosi. La Dalia Nera, abile story-teller, aveva già cambiato i dati della sua incerta biografia in passato: un fidanzato pilota morto durante un incidente aereo, di ritorno dall'India, diventa un più consistente "marito" nello script orale di Liz Short, dotato persino di un corredo indimostrabile, ovvero un figlio morto (durante il parto? di malattia?). Non c'è differenza tra il vago affabulare di Fred investigato dalla polizia ("Le cose mi piace ricordarle a modo mio") e le balle della ragazzetta bostoniana o i riposizionamenti di Selwyn. Tali soggetti rapsodici, alla fine dello story-telling, lasciano comunque sul campo tre cadaveri, tre corpi in frammenti. David Lynch, nel testo curato da Rodley, ricorda quando l'assistente pubblicitaria lesse su una rivista medica dell'esistenza di una cosidetta "fuga psicogena", disturbo mentale in base al quale alcuni pensieri ricorrenti o ossessioni si rincorrono in sovrapposizione l'uno sull'altro, come una fuga musicale, salvo che non se ne prevede la fine. Tutti i soggetti che stiamo analizzando, in sostanza, partono da un desiderio che non si appaga una volta che si scontra con la città del cinema (la spirale inarrestata dell'insuccesso, l'amore di coppia trasmutato in impasse e tradimento, etc.), ma non credono-sperano, e con loro Lynch, che il problema sia risolvibile. Il regista non ci pensa nemmeno a mettergli al fianco uno psicanalista freudiano, che li avrebbe spinti a chissà quale appagamento sessuale coatto, e morta lì. La weltanschaung lynchiana non prevede risoluzioni, quanto invece esposizioni di un problema psichico. Per lui le cose semplicemente accadono (il tratto laconico del suo argomentare è costante nel libro-intervista di Rodley) e non c'è verso di trarle fuori dal buco misterioso in cui precipitano gli eventi. Al di là del fatto che il senso di ambiguità ineffabile, silente è esteticamente più intrigante dell'esplicita volontà di De Palma di "venir fuori" dall'impasse interpretativa di sogni e comportamenti anomali (a domanda risponde di voler conoscere con assoluta chiarezza l'origine dei suoi incubi ricorrenti), Lynch è concettualmente, diremmo filosoficamente fermo sulla volontà di difendere l'universo immaginifico che vive in lui e del quale non vuole mai fornire interpretazioni univoche. Egli è elusivo quanto lo sono i suoi personaggi traumatizzati (e quanto lo era la stessa Elizabeth Short una volta arrivata a Los Angeles). Un “surrealista postmoderno” forse non è concepibile, forse è un ossimoro: ma la definizione veste abbastanza bene l'autore di ERASERHEAD. Al di là di pose eccentriche e scelte politiche da polemisti metropolitani, giustificate nei primi decenni del XX secolo, Lynch condivide con i surrealisti alcuni aspetti di metodologia in campo psicanalitico, nello specifico, e in territorio artstico, in particolare. Innanzitutto (versante psicanalitico) perché in questi film le sue figure femminili (e Fred Madison), attive o passive, agiscono sempre secondo le modalità dell'AUTOMATISMO PSICHICO (si pensi alla SCRITTURA AUTOMATICA e alle libere associazioni, come quelle di Crevel, Desnos e Péret, che tentano forme di disegno e di scrittura in stato di semi-ipnosi), inteso come il dettato del pensiero in assenza di controlli razionali o argini di natura etica. Poiché il punto di partenza comune a tutti (Lynch, il Surrealismo, freudiani e lacaniani) è che l'uomo moderno non agisca razionalmente e che il suo presunto “inconscio”, interno o esterno, si esprima di conseguenza, gli atti creativi generati da esso fissano le premesse per universi simbolici sconfinati e liberi dai condizionamenti di natura etica. Lo scopo finale, fissato da Tristan Tzara, è quello di "risolvere le condizioni, finora contraddittorie, di sogno e di realtà in una realtà assoluta, in una surrealtà". Ciò che vediamo in UN CHIEN ANDALOU o in ERASERHEAD, o le azioni (sovente assai deprecabili) di Leland/Bob in TWIN PEAKS e degli stessi Diane e Fred, scavalcano i più alti argini morali ed estetici. L'impossibilità di estrisecare alcunché dai film citati (analisi critica, arrovellamenti interpretativi) è doppiata dall'inutilità di inserirli in un contesto etico. Jack Nance uccide il feto che ne angustia l'esistenza, Fred ha smembrato il corpo di Renée, Diane Selwyn ha commissionato l'assassinio di Camilla Rhodes (è il vero nome di Rita), Leland ha stuprato la figlia mentre il suo doppelganger Bob lo possedeva, un occhio umano viene tagliato, asini in decomposizione giacciono su pianoforti a coda: non c'è nulla che si possa “trarre fuori” da questa composita materia, come mostra la difesa strenua di Lynch nei confronti di tutte le sue creature, indistintamente amate; e come risulta dai tentativi fallaci di attribuire senso a immagini apparentemente cariche di sottintesi (l'asino sul piano sarebbe la cultura occidentale in decadimento, etc.). In secondo luogo (versante artistico) ogni categoria temporale – linearità, scansione cronologica di eventi narrati – è abbandonata e sostituita da macroscopici scarti ed ellissi. Lynch non arriva a flashback o flashforward stocastici di 6 anni, ore, ere, ma comunque usa il tempo filmico come un contenitore entro cui muoversi liberamente. Ancora: un ulteriore tratto comune è l'importanza attribuita alla memoria, sempre scardinata da impalcature cronologiche di sorta. Si vedano il mondo fatato dell'inizio di BLUE VELVET, la seconda vita di Fred – Pete, con le staccionate bianche e l'innaffiatore in azione, i dettagli di una natura con la quale porsi in simbiosi o i gloriosi ricordi del design anni '50, molto rimpianto dal regista, nemico acerrimo dell'architettura contemporanea (dove manca il legno, i metalli sono mal lavorati etc.). Possiamo quasi parlare di un artista che si pone fuori dalla Storia:assoluto rifiuto a commentare l'attualità, recepita fenomenologicamente, che fatica ad entrare con tratti univoci all'interno dei film: chi può dire con certezza l'anno in cui si svolgono le vicende di MULHOLLAND DRIVE, WILD AT HEART, ERASERHEAD? Straordinario, a questo proposito, l'aneddoto del giovane David piccolo e americanissimo “Eagle Scout” coinvolto nella cerimonia d'insediamento di JFK, gennaio del 1961: nessuno spunto legato all'assassinio del '63, al ruolo storico di Kennedy, alle ambiguità di Johnson, alla Baia dei Porci... Nulla. Anche oggi, il poeta pittore che pare restasse sempre muto sino all'adolescenza e al successivo trasferimento a Philadelphia per studiare arte, si eccita nel rievocare il passaggio delle due limousine contenenti 4 successivi presidenti americani: “In quella davanti, Kennedy e Eisenhower parlavano fra loro, mentre dietro Nixon e Johnson stavano zitti...Bizzarro, no? ” (sempre dal libro di Chris Rodley). “Le cose semplicemente accadono”. “Tutto ciò è sicuramente bizzarro...”: ecco l'argomentare surreale di un genio che vorrebbe la casa tappezzata di Francis Bacon e abitata da Franz Kafka (“la persona cui mi sento più vicino in assoluto”). Conseguentemente, Lynch produce regie automatiche: si pensi solo alla “donna del ceppo” di TWIN PEAKS e alla “donna del radiatore” in ERASERHEAD. Il regista accoglie senza filtri immagini, puri significanti suggeriti da un inconscio che assomiglia molto di più a quello lacaniano che all'edificio ben strutturato e senza fondo di Freud. Il suo stesso primissimo esordio, non a caso, fu come l'emergere di un'alterità sotto forma di linguaggio: un suo quadro “gli chiese” di essere messo in movimento. Lynch eseguì e venne pure premiato.
Naturalmente, seguendo Lacan (senza però indugiarvi troppo...), il cosidetto “inconscio esterno” al soggetto ha bisogno di qualcuno/qualcosa che “lo parli”: la rivoluzionaria affermazione (peraltro in parte deducibile dalla stessa “Interpretazione dei sogni”) secondo cui “l'inconscio è strutturato come linguaggio” invece che come insieme di affetti, parte dall'idea della psicanalisi quale comunicazione tra due soggetti sulla semplice base, appunto, del linguaggio, senza ammissione di cure e interventi sul corpo fisico, senza contatto e senza farmaci. “Se l'analista cura semplicemente attraverso la parola, questo significa che l'inconscio è esso stesso linguaggio” (Sergio Benvenuto , “Jacques Lacan: ritorno a Freud”, 1993, Intervista concessa a “Rai Educational “). “L'interpretazione è qualcosa che avviene sempre a livello di linguaggio. In altre parole, non bisogna essere molto profondi quando s'interpreta, anzi bisogna restare un po' in superficie”. Tutto ciò è facilmente applicabile all'inconscio del paziente David Lynch e al popolo che abita le sue opere, siano foto-quadri film: puoi rimanerci sopra per anni, ma la scatola e la chiave blu di MULHOLLAND DRIVE – un esempio tra mille - non ti porteranno da nessuna parte. Un universo di segni, di significanti ma non di significati, insomma, che è frutto di una dinamica particolarissima, affascinante, ma lontana dal'idea di “arricchimento” che avremmo se procedessimo con Freud. Dice ancora Benvenuto: “Lacan ha contribuito a liberarci della vita interiore: l’inconscio non è qualcosa che sta dentro il corpo. Oggi immaginiamo miticamente il corpo come una cassa, e dentro questa cassa c’è l’anima e quindi poi le pulsioni, gli istinti, i desideri ecc... L’inconscio per Lacan invece è qualcosa che si trova fuori dell’essere umano, e questo fuori per Lacan è sostanzialmente quello che lui chiama l’Altro con la A maiuscola, e che per lui è il linguaggio. Il linguaggio è l’Altro, e l’Altro è anche linguaggio, per una ragione estremamente semplice: che quando noi nasciamo, certamente nasciamo dentro il corpo di nostra madre, ma il linguaggio che ci viene insegnato ci viene sempre dall’esterno. Il linguaggio ci viene da nostra madre, da nostro padre, dagli adulti che sono attorno a noi; quindi l’inconscio ci viene, da un punto di vista lacaniano, sempre dall’esterno”. Viene in mente il testacoda di campi lunghi e immagini ravvicinatissime della natura (alberi, erba, attività sub-superficiali che corrompono l'orecchio tagliato in BLUE VELVET), tutte connotazioni “esposte” da Lynch senza interrogazione, ma che comprendiamo derivargli dal fitto dialogare col padre sul suo lavoro di bio-ricercatore. Concludiamo il saccheggio da Sergio Benvenuto con un passaggio che sembra il manifesto dell'estetica lynchiana: “Il bambino appena nato piange. E quale operazione gli adulti - la madre in primo luogo - fanno con questo bimbo che frigna? Dicono “tu piangi perché hai fame”, oppure “piangi perché hai freddo”. La madre interpreta il perché di questo pianto usando parole. Ed ora, nell’istante in cui la madre parla come l’Altro, con la A maiuscola, compie due operazioni simultanee, ma che per Lacan sono profondamente connesse: da una parte insegna il linguaggio al bambino - in questo caso la lingua italiana - ma nello stesso tempo interpreta il desiderio del bambino, traducendolo in parole italiane. Ora, non sapremo mai perché il bambino frignava, ma la madre, l’Altro, dà quello che Lacan chiama un significante. L’adulto dice per esempio: “hai fame”, “vuoi latte”, cioè fissa il desiderio in una rappresentazione. Questa rappresentazione viene chiamata da Lacan – che prende il termine dalla linguistica strutturale - “significante”. Questo farà sì che in realtà il bambino potrà percepire il proprio desiderio profondo – quello che causava il suo pianto - soltanto attraverso il linguaggio della madre, in una alienazione fondamentale - e “alienazione” è un termine hegeliano. Egli può sapere qualcosa del proprio desiderio perché un altro gli ha detto che cosa lui desidera. Ma che cosa veramente volesse resterà sempre un mistero; e questo mistero di ciò che l’uomo desidera o di ciò di cui gode prima che la madre parli, cioè prima di ogni linguaggio, è quello che Lacan chiama il manque, la mancanza. Questa mancanza, che è già presente, ma non esplicitata in Freud è pensata da Lacan come strutturante l’inconscio”.
La presunta oscurità lacaniana è nettezza di ragionamento se si accetta di non essere più nei territori del tardo-positivismo di Freud, che portava le scienze umane sul piano di quelle naturali e tutto voleva spiegare, e ci abbandoniamo alla “superficialità” delle analisi del francese applicate alla persona Lynch, al bambino Lynch “che frigna” ma è bellissimo NON sapere perché lo fa e quindi perché il suo frignare diventa la donna del ceppo o il compulsivo “telefonare a se stessi”. Le “madri” di Lynch hanno lavorato sicuramente su un terreno fertile e, se possiamo osare, diremo che la qualità complessiva di un essere umano deriverebbe dalla quantità di opposizione del bambino frignante alla Madre-Altro e al di lei “fissare il (presunto) desiderio in rappresentazione”: quanto più resisti, tanto più l'inconscio “strutturato come linguaggio” si libererà in forme articolate, immagini complesse, mondi articolati. Altrimenti, come per la maggior parte delle persone, il danno finale sta nell'essere parlati da un desiderio che non è il proprio e nel vedersi costruire l'inconscio = linguaggio da parte di madri che non sono quella naturale, ma sono contesti-situazioni-luoghi che ti incrociano e non ti amano, ti chiamano ma non sono pronti a dare, come una comune madre fa. La capacità resistenziale altissima del bambino-Lynch ha partorito un essere umano molto appaesato, adattivo, cordiale nel suo relazionarsi alle persone con cui lavora, solitamente amici veri e mantenuti tali nel corso degli anni. Ma il regista sa benissimo che altri intelletti e altre psicologie meno resistenziali (quei malati o disperati che lo interessano), sono le vittime di madri reali e madri virtuali che ne creano/interpretano i desideri e ne istituiscono l'inconscio-linguaggio. In poche parole, li creano, li dominano, li sfruttano, ne posseggono le vite.
Tornando alle black dahlias considerate in partenza, abbiamo chiarito come i loro atti estremi non possano non suscitare altro che sospensioni di giudizio e che l'automatismo psichico che li ha spinti a uccidere o delegare morte è spesso spiegabile. Il popolo di vittime (perché si è dimostrato essere tutte delle vittime) include anche Elizabeth Short e il suo assassinio, del quale si dirà più avanti.
Ciò che ci pare assai carico di fascino è ipotizzare quali siano, per la Short e le sue analoghe Diane Selwyn, Rita/Camilla o Alice Wakefield/Renée Madison, queste “madri” che ne hanno orientato l'esistenza verso orizzonti tragici. Ciò che ci appare con massima chiarezza è che LOS ANGELES è la Madre che le ha parlate e ne ha creato l'inconscio e il sistema disordinato di desideri. Al di là di ogni facile rappresentazione di un luogo così carico di valenze legate al cinema come evidente doppio della vita, rileviamo semplicemente l'esistenza di uno schema binario (desiderante/desiderato) dove da una parte sta LA PROVINCIA AMERICANA, e i suoi abitanti più o meno capaci di eversione, mentre dall'altra (l'oggetto desiderato) si pone con forza l'ambiguità del luogo californiano delle luci (e delle ombre, della nebbia, del Big One...), appunto la CITY OF ANGELS. Le starlettes, le wannabees, le anime semplici di migliaia di ragazze che si mettono in marcia verso quella meta, sono assolutamente assimilabili al bambino dell'esempio lacaniano: “può sapere qualcosa del proprio desiderio perché un altro gli ha detto che cosa lui desidera”, e questo altro è la scatola parlante della televisione in casa o, come per la Dalia Nera, le frequentissime serate al cinema trascorse insieme alla madre abbandonata da un padre ridotto in miseria dalla Depressione. è la città del cinema che s'insinua nella scatola catodica, sulla stampa, nele menti, in definitva, delle Liz Short d'America. Come dimostrato, l'adolescente bostoniana era già una piccola star tra le coetanee, ma più matura, alta, sofisticata. I film visti a Medford (e poi a Miami) agiscono su di lei come la risposta del genitore sul bambino “che frigna”: “tu vuoi diventare una star”. Il lamento della giovane senza padre apparente (aveva finto il proprio suicidio, anche lui bravo orchestratore di narrazioni e tessitore di falsità) trova lo specchio di Los Angeles pronto a restituirle un (inesistente) inconscio sotto forma di linguaggio – i vezzi delle attrici, le pose mature in piena adolescenza, il dressing-up da diva, fasciata di nero. Los Angeles agisce per procura, formando le bildung psichiche di migliaia di bambine frignanti. Ma, come dimostrato da Lacan, la/il bambina/o può percepire il proprio desiderio profondo – quello che causava il suo pianto - soltanto attraverso il linguaggio della madre, in una alienazione fondamentale (...). Egli può sapere qualcosa del proprio desiderio perché un altro gli ha detto che cosa lui desidera. Ma che cosa veramente volesse resterà sempre un mistero”. Il corteo di wannabees di provincia, insomma, crede di sapere quello che vuole, ma va incontro ad una brutta fine perché quel desiderio è pura e semplice alienazione da sé. Lacan, poi, parla di “restare in ascolto del desiderio”, non agendo il contatto col desiderato, ma qui siamo veramente “altrove”, perché il vero confronto è con una “realtà presunta”, quella di una città anomala e senza centro, dove il corpo e il contatto sono veramente al centro di tutto. Volendo, comunque, dirla tutta coi termini di una scienza umana che non è esatta (Lynch), anche Sartre (“L'etre e le Neant “) e Blanchot hanno inteso approfondire la questione, seppur in termini di pura speculazione filosofica. Il desiderio diventa il negativo dell'“autosussistenza”, una sorta di negazione dell'essere, matrice di svuotamento e, nell'indicare una “mancanza essenziale” (il Manque di Lacan), si rivolge “verso un oggetto indefinito che è continua sostituzione(...). Il tentativo bulimico di supplire e riempire un fondo già e sempre bucato” (...) Diane e Liz sono “bucate da sempre”, incapaci di darsi una soglia, di costituirsi in forma di “limite” e non di espansione continua. La matrice di tante dissoluzioni losangeline è tutta qui: attricette che si ricollocano nel mondo del porno (LOST HIGHWAYS), ragazze non talentuose ridotte al classico impiego come cameriere (MULHOLLAND DRIVE) o entità mai formatesi, come la Short, che addirittura sono talmente “vuote” da diventare marionette totalmente risucchiate, a mo' di Alice, dentro il vortice linguistico fornito loro dall'oggetto desiderato: parla come una sceneggiatura, s'inventa strati di (ir)realtà spacciati per vita vissuta, sparpaglia quel poco di “sè” in mille rielaborazioni della propria non-esistenza (il non-marito, il figlio mai avuto, etc.). Idem per Diane, che transita da “Winkie's” invece che sul set di qualche film e per il suo doppio Rita, transeunte e spettrale, protagonista di una definitiva perdita di sé, sino a dimenticare il proprio nome e la propria identità, suggeritele non a caso (la mamma che interpreta “tu vuoi il latte!”) dal Cinema appeso alle pareti della residenza di Betty/Diane: il manifesto della Hayworth fattosi inconscio-linguaggio che le parla e le dice “ tu ti chiami Rita “. Stando sempre con Blanchot (da Alessandra Pigliaru, Anarchia del desiderio. Il soggetto rapsodico tra Lacan Deleuze e Artaud , in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.2 Luglio-Ottobre 2003): “(...) Il linguaggio porta in seno la decostruzione del soggetto. Infatti "il potere di parlare è legato…alla mia assenza d'essere. Mi chiamo ed è come se (...) mi separassi da me stesso, non sono più la mia presenza né la mia realtà, ma una presenza oggettiva, impersonale, quella del mio nome che mi supera (...). Quando parlo, nego l'esistenza di ciò che dico, nego anche l'esistenza di chi parla(...)" (Blanchot 1983, 29). L'assenza d'essere di cui parla Blanchot è molto simile a quella che Lacan chiamava manque-a-être, spazio nel quale e per il quale sorge il desiderio (Lacan 1974, 625). Il desiderio è un rinvio (...). Il rinvio costante è la caratteristica dell'inconsistenza e dello sgretolamento originario del soggetto che si illude di essere ciò che è già e sempre in Altro”. Quest'idea “del mio nome che mi supera” è assai pertinente nel caso dell'irrealtà losangelina, dove la continua riproduzione/moltiplicazione dell'immagine e del nome che questa si porta dietro (mi vedo sui manifesti, mi rivedo sullo schermo, appaio deformato sui tabloid del gossip, etc.), accorcia i tempi di una dissociazione del soggetto ormai giunta all'ultimo stadio. Vedo aggirarsi per la città, in sostanza, una molteplicità di miei doppelganger che non so essere lì a mo' di protezione del mio soggetto o, come dettano alcune tradizioni locali, in funzione di annuncio di sventura. Più semplicemente e drasticamente, questa moltiplicazione di “me stessi” mi destruttura e m'impone, quando il tempo muta la mia immagine pubblica, una continua rincorsa dietro a queste facies continuamente riproducentisi. L'alienazione degli attori rinchiusi nell'enclaves di Beverly Hills, sfumati dietro i vetri delle limousines, senza fiato nel tentativo di bloccare un'immagine eterna(mente giovane) è in nesso diretto con le articolate premesse (anche) psicanalitiche elencate sopra.
L'ossessione del corpo al centro del cinema e l'alienazione che deriva dalle sue infinite riproduzioni orali e audiovisive, può essere risolta, e non rinviata, con l'eliminazione del corpo stesso, che passa per fasi successive, anch'esse connesse grazie a comune matrice psicanalistica: Diane Selwyn si recide dal mondo, dopo aver eliminato ”la parte di sé che aveva avuto successo (Camilla)”; Pete Madison è a un passo dal farlo, perché anche il tentativo di una seconda vita e degenerato in impreviste dissoluzioni del nuovo soggetto (Pete) e nel moltiplicarsi di Renée in un'Alice ancor più perturbante. LOST HIGHWAYS, non a caso, termina con una nuova fuga psicogena, che viene nascosta al nostro sguardo. Pete Madison e Diane in fase di FUGA e di SOGNO, sono molto vicini al concetto di SOGGETTO RAPSODICO enunciato da Lacan: “ (...) L'architettura del desiderio prende forma in Lacan attraverso delle disorganicità. Il soggetto rapsodico è ravvisato nel "corpo-in-frammenti…[che] si mostra regolarmente nei sogni...Allora esso appare nella forma di membra disgiunte (...)" (Lacan 1974, 91). Siamo a un passo dalla fine, dal suicidio o dal suicidio per procura che istiga altri soggetti generici a farsi assassini del tuo soggetto dissolto. Siamo, anche, a un passo dall'incredibile esposizione/DEPOSIZIONE della Fine del Corpo o del Corpo in Frammenti (ed eventualmente del “C.s.O.”, CORPO SENZA ORGANI) che qualcuno ha messo in scena con l'omicidio di Elizabeth Short.
Guardiamo Fred nella sua ultima fuga, in auto, alla fine del film: assistiamo alla “disintegrazione di qualcosa che ha smesso di svolgere la propria funzione, la saturazione e la trasformazione di un soggetto che non controlla se stesso”. Come accennato in precedenza, la sua continua messa in atto del desiderio di Renée elevata alla “n”, rompe gli argini deboli di un soggetto fasullo e straripa Altrove”. David Lynch potrebbe aver letto, o meno, questi Seminari, ma ha comunque dimostrato di saper riprodurre/rappresentare col linguaggio cinematografico qualcosa che la psicanalisi aveva elaborato con strumenti propri. L'incredibile quantità di punti d'incontro, consente di parlare di un'arte registica che agisce per libere associazioni, usa le modalità del linguaggio onirico e, in definitiva, opera una scrittura di testi (visuali) automatici. La prossimità eclatante con Surrealimo e Lacan è chiara. Come in Bunuel, per certi versi, la regia di Lynch permane nello stato di tensione e attesa di un "mistero silente" : la verità, infatti, che dorme nell'inconscio pre-materno, è anonima, destinata a un lungo silenzio-sonno e a rimanere latente nel suo detto-non detto. Se si ha un'improvvisa epifania della comunicazione linguistica (sempre e a livello visivo), non deve necessariamente aprire mondi stratificati zeppi di significati, ma probabilmente si attua solo come complesso di affascinanti significanti, superficiali (Lacan) o profondi che siano. In due parole: in David Lynch l'inconscio si struttura come linguaggio visivo.
Il sogno retroattivo, confuso, rilocativo di Diane Selwyn è puro automatismo psichico, che, con calibrata superficialità, rimescola i connotati identificativi dei personaggi e delle situazioni "reali" (Coco, da perfida madre del regista, trasmuta nella "lodger" materna; molti invitati del party che scatena l'ira della ragazza, acquisiscono carattere negativo: il "cowboy", il mafioso "fittizio" Castigliani e altri, erano semplicemente lì durante l'annuncio di matrimonio che spezza il legame tra la loser Diane e l'arrivista Camilla, stesso sorriso di Elizabeth Short, etc). Eppure, e in ciò risiede la grandezza di Lynch, un contesto fedele ad automatismi, analisi lacaniane superficiali, dominio del linguaggio visuale etc., è il punto di partenza per una poetica lucidissima che non concede nulla al caso e neanche allo sperimentalismo in fieri del cinema surrealista. Il regista, poi meticolosamente seguito passo per passo da Atom Egoyan in WHERE THE TRUTH LIES, è consapevole che un procedere elusivo/allusivo aumenta l'attesa nello spettatore (attesa di significati, ma questo è un problema suo!): conseguentemente muove la m.d.p. come un doppio in azione del proprio automatismo psico-visivo, piegandola, curvandola incessantemente (ma lentamente), facendola tremare inopinatamente, dissipando ogni nostra certezza e ansia di sapere. Che dire dell'incredibile, anomalo ondeggiamento della macchina da presa nei due momenti da Winkies's? Certo, è uno dei momenti onirici, Rita è lì che vede il nome "Diane" sulla divisa della cameriera, ma durante altre "rivelazioni" non assistiamo a simili exploits.
Dicevamo in precedenza del parallelo tra questi due film: dopo l'esordio del film che evoca gli anni '50 (i balli pastello/il telethon di Egoyan del 1957), assistiamo a un analogo curvare della m.d.p., che descrive una voluta per andare a vedere cosa c'è dietro quel manifesto di allegria: il cadavere di Maureen O' Flaherty e la morte-incidente di Camilla/Rita. In W.T.T.LIES è il lentissimo entrare nella stanza da bagno del Palace del Sol Hotel nel New Jersey, in stacco con le luci flou dello show sulla poliomielite; in MULHOLLAND DRIVE è la limousine (sempre mortuaria, doppio della Cadillac di Robert Loggia in LOST HIGHWAYS) che intreccia sei o sette tornanti in continua dissolvenza, prima del meraviglioso crash ralenti. La curva è lo svoltare del racconto: siamo dietro e ci apprestiamo ad andare sotto. Dentro il buco del "White Rabbit". Karen (Alison Lohman) ripete il tutto con un'inaspettata u-turn in mezzo al traffico di Los Angeles: è il suo modo di dire che acceda la sfida della città. Come desiderante - giornalista in erba in attesa di carriera e successo - entra nel vortice della città desiderata. Poi è il momento del bicchiere di whisky girato lentamente dalla mano di Vince, uno dei due bianconigli del film, appaesato nelle vesti (rosse!) del manipolatore/nasconditore di verità. "Who are you?" domandano Colin Firth/Vince Collins e poi Kevin Bacon/Lanny Morris a Lohman/Alice in Wonderland: cosa vuoi essere? qual'è l'identità che ci regali, il corpo che metti a nostra disposizione? Che gioco vuoi giocare e che nome hai in questo gioco? Karen si nasconde, come Diane/Camilla: "Bonnie Trout" e "Rita" sono le duplicazioni funzionali all'accettazione delle regole del gioco. A completare il quadro, è lecito ricordare la morte violenta (in aereo: sempre moderni crash metallici alla base dei traumi) di Matthew Gordon Jr., che scatenerà la matrice fictionale dell'inconscio di Liz Short fissato da Los Angeles come madre che ne fissa il corteo dei desideri. Dalia Nera/Elizabeth Short "è" la velleitaria Maureen O' Flaherty (di cui la madre, nel film, riecheggia i tratti di Phoebe Short).
Egoyan allestisce un testacoda linguistico assai utile a narrare gli eventi sub specie carrolliana - la più pertinente in un regime di Doppi e quindi applicabile sia a Diane & co. che alla stessa Alice-Liz Short - quando sovrappone il testo di WHITE RABBIT dei Jefferson Airplane/Grace Slick (1967, album "Surrealistic Pillow"...) a quello dell'autore inglese, un reverendo moltiplicatosi in svariate identità (vero nome: Charles Lutwidge Dodgson):
"One pill
makes you
larger L'originale partiva con: "One side will make you grow taller, and the other side will make you grow shorter." Le "different sides" sono indicative dei posti a sedere davanti o dietro lo schermo e, nella declinazione carrolliana narcotico-onirica di uno straordinario gruppo rock'n roll di stanza a L.A. tra Sixties e Seventies, separano il Popolo dello Spettacolo dal resto del mondo. Indica, il testo del brano, l'aggiornamento di Carroll ai tempi della cultura lisergica (pills, mushrooms), suggerendo che spesso l'automatismo psichico può essere indotto da "pillole surrealistiche". Come singole inquadrature lynchiane.
(to be continued...) |