63ma mostra del cinema di venezia

 

BOBBY (Work in progress)

di Emilio Estevez

 

Con William H. Macy, Martin Sheen, Anthony Hopkins, Harry Belafonte, Christian Slater,

Heather Graham, Elijah Wood, Lindsay Lohan, Demi Moore, Sharon Stone, Helen Hunt,

Laurence Fishburne, Emilio Estevez, Joshua Jackson, Ashton Kutcher
 

IN CONCORSO
 

di Gabriele FRANCIONI

US versus the U.S.
CAPITOLO 3

Un film che ci costringe all'impasse: velleitario parto gemellare del JFK di Oliver Stone, ma programmaticamente privo di quel fuoco analitico che scavava fino all'incredibile verità, BOBBY si disfa nelle maglie allentate di mille storie comuni colte nel trascinarsi (r)esistenziale dietro le quinte della messinscena elettorale allestita da/per Bob Kennedy, destinata a consegnare l'ennesimo corpo in frammenti all'orrenda cronaca, poi Storia, dell'America tra il '68 e il 1971.
Estevez/Sheen soffre un po' la Sindrome di Altman, aggiornata dopo recenti studi in Morbo di Paul Th. Anderson-Haggis: compensare i vuoti narrativi, e la conseguente furba secchezza di dialoghi istantanei ma elusivi ammiccanti superficiali, con
questa mania moltiplicativa di personaggi e situazioni, questa presunta coralità (ma il coro è orchestrato, segue uno spartito) che dovrebbe nascere "a" NASHVILLE o M.A.S.H., svilupparsi in AMERICA OGGI e diventare rimando infinito e metodo in MAGNOLIA o CRASH.
Hotel Ambassador, Los Angeles, 4 giugno 1968: Robert Kennedy annuncerà la vittoria alle primarie californiane e il lancio verso la corsa alla Casa Bianca.
BOBBY narra tutto quello che brulica dietro e dentro la macchina organizzativa elettorale e all'interno dell'hotel stesso, incrociando bariste wannabees, attivisti neri, cantanti alcolizzate, portieri d'albergo in pensione, centraliniste e lavoranti generici, che parlano fra loro in continuazione.
è sempre molto irritante smascherare dialoghi magniloquenti nascosti dietro lo schermo di un filosofeggiare dimesso (il chattare della parrucchiera buona frustrata e della cantante acida declinante, lo svanire invecchiando di Belafonte & Hopkins, i sogni infranti della giovane coppia spezzata dalla chiamata alle armi, etc).
Riusciamo quasi a vedere il faticoso lavorio di cesello dello sceneggiatore (sempre Estevez) mentre studia con sei occhi i dvd dei film citati sopra, convinto che la deriva esistenziale passi attraverso l'affabulare invece che fissarsi sugli sguardi, la gestualità, i silenzi. La ricerca a tutti i costi dello scarto emotivo all'interno di ogni scena, operato attraverso un passaggio dal tono lieve al rimuginare compulsivo su crisi personali, svela il piano, il complotto per ottenere un'immediata e stupita reazione nello spettatore.
Il caso Kennedy-2, l'ennesimo assassinio di stato per bloccare l'avanzata delle culture alternative al potere delle multinazionali e dell'industria bellica e per liberare i neri e la cultura giovanile anti-Vietnam, è materia sulfurea e, come tale, meritevole di un approccio diverso: assolutamente inadeguato è lo sparpagliamento stocastico di figure che agiscono nel retrobottega dello scintillante proscenio della politica, anche perché il nesso tra queste e Bobby, paladino dei reietti, andava approfondito, mentre sfiora solo la pelle del racconto, attaccandosi alla superficie delle parole (Kennedy è la nostra speranza, sarà il presidente del cambiamento e così via).
L'intuizione di una doppia speranza spezzata - il nuovo paladino muore, di conseguenza muoiono i sogni del suo popolo - era intrigante, veicolo emozionante per mille spunti, mille idee: la delusione è, quindi, notevole, perché si rimane in mezzo al guado, privati del potente approccio filologico di JFK (che concentrava le ragioni del pathos nella sola figura di Garrison) e, in alternativa, senza possibilità di affezionarci ai personaggi (22!) messi sulla scena.
Valga per tutti il sous chef di Laurence Fishburne mentre discetta di gerarchie razziali con i camerieri messicani, Rodriguez e Vargas, usando i mezzi di una retorica ampollosa a metà tra Shakespeare e lo zio Tom, col solo risultato di avallare l'assunto-base dell'America democratica: si aprano le porte a tutte le razze, a patto che queste ricambino il favore disponendosi, rispetto al momento d'arrivo, nella scala sociale sempre aggiornata. Nel 1968 i chicos erano gli ultimi arrivati e, come tali, sottostavano anche ai neri.
Chi è stato di recente a Los Angeles o New York ha potuto apprezzare, con orrore, la teoria di etnie che ti portano dall'aeroporto all'albergo, disposte come figurine di un regime repressivo che le adotta dopo averle battute (mai ad armi pari) sul piano bellico o economico: l'iracheno ti offre taxi abusivi, il russo ti carica sù, il portoricano-messicano ti prende i bagagli, mentre una cameriera vietnamita ti sta preparando la camera e il colored è già arrivato a dirigere la reception...
La capacità di riprodurre all'infinito nuove versioni di questi gironi infernali del sociale è specchio di ciò che gli Stati Uniti fanno ormai da un secolo: fanno affari, con chiunque, e non importa se questo costa milioni di vite umane.
Inventano (male) un nemico fittizio; stringono con questo accordi commerciali (la famiglia Bush con quella di Osama); fingono una crisi di rapporti; indottrinano mediaticamente le loro colonie controllate dalla Cia - Italia compresa - sulla necessità di battere il Nuovo Mostro (CCCP, Corea, Vietnam, Afghanistan, Iraq...); lo radono al suolo con bombe stupide e generali decerebrati; sostituiscono i soldati morti o quelli suicidatisi sul posto con la nuova (bassa) mano d'opera costituita dai desperados appena sconfitti, disposti a farsi ricollocare ovunque; azzerano le culture locali; costruiscono oleodotti realizzati dai petrolieri texani (la peggior razza del pianeta, una vera jattura); ricostruiscono le città in macerie con ditte americane; continuano ad ammorbare il pianeta con la loro inutile, insopportabile presenza, tradendo i Padri Fondatori, Jefferson e Lincoln.
La ruota girerà, come è giusto che sia, ma intanto il massimo che possiamo fare è prendercela col povero Estevez, che ha sprecato un'occasione per dire come stanno le cose (alla Spike Lee, ad esempio) e non basta di certo il comune voice over di Martin Sheen, che apriva JFK e chiude questo BOBBY, per spalancare gli occhi a chi se li serra: va bene il siparietto simpatico sui poteri dell'LSD e la cultura figlia di Timothy Leary (di fatto l'unico segmento perfetto del film), va bene il corteo di anime perse, ma era troppo pretendere che invece d'inquadrare il fantoccio assassino, appartenente al gruppo Sirhan Sirhan, si facessero vedere gli agenti della Cia sparsi per l'Ambassador che gli spianarono la strada, come a Dallas cinque anni prima?
Insomma, il film non è malissimo, e va sostenuto, anche se solo col cuore. I timori dell'esordiente, però, per quanto molto guidato da Martin Sheen, sono assai evidenti: horror vacui nell'organizzare l'inquadratura, horror vacui nel comporre un cast esagerato e sprecato (altra forma di compensazione), horror vacui nel montaggio, definizione incerta dei tempi di durata delle scene (o troppo brevi o troppo lunghe), sensazione di un contributo "sulla fiducia" da parte degli attori, sicuramente in regime di paga sindacale, più devoti alla causa del film impegnato e all'amicizia verso la famiglia Sheen che consapevoli dell'effettivo talento registico di Estevez, tutto ancora da dimostrare.
è comunque divertente vedere insieme la Moore e la Stone, piacevole osservare l'esordio di Mary Elizabeth Winsted, buffo riconoscere la comicità di "That 70s Show" nel personaggio lisergico di Kutcher.
A mo' di epitaffio, diciamo solo che l'elezione di Nixon strappata col sangue di Bobby - mai petrolieri e industria bellica avrebbe permesso un'altra sconfitta del peggior presidente U.S.A. (con i due Bush) dopo quella patita nel 1960 contro Jfk - è stato un buco nero nella Storia contemporanea.
Nello stesso '68 erano pronti i trattati di pace per il Vietnam, l'"I had a dream" di MLKing contagiava il popolo dei neri, la Summer of Love dell'anno prima aveva cementato la protesta hyppie: l'impresentabile "Dick" arrivò come la peste a spegnere l'intero Movimento per la Pace.
Se Johnson si era dedicato all'eliminazione dei leader di colore (Malcom X nel '65 e lo stesso King nel '68), Nixon, un anziano privo di appeal e di genio, quindi l'opposto di John & Bob, si applicò con la meticolosità dei mediocri e complessati a cercare di opporsi all''ondata di gioventù che occupava i Campus universitari e ai suoi leader carismatici: le rock star.
Il solito Oliver Stone, in NIXON, sottolinea i tratti di una lotta anche personale del presidente contro tutto ciò che ne era l'antitesi: ecco perché morirono i quattro studenti della Kent State University in Ohio (1970) durante una dimostrazione per la pace in Vietnam, ecco la ragione degli analoghi scontri di Chicago (1968), le misteriose morti di Janis Joplin-Jimi Hendrix-Jim Morrison (biennio '70/'71) e la persecuzione nei confronti di John Lennon, a cui penserà Ronald Reagan appena eletto.
Alzi la mano chi crede a episodi casuali e non a un monito per il mondo del rock, che infatti si placò, in America, e lasciò il testimone al (benedetto) punk anglosassone.
Con Bobby presidente tutto questo non sarebbe mai accaduto e la guerra in Vietnam si sarebbe conclusa sette anni prima.
 

Voto: 24/30

09:09:2006

di Mauro RESMINI

Emilio Estevez ha girato un film à la Altman, si è detto. E in parte è vero; l’unica differenza è che l’Altman di oggi (quello dell’avvilente RADIO AMERICA) un film così non sarebbe probabilmente in grado di girarlo. Di più: per quanto suoni blasfemo anche solo pensarlo, lo stato di fossilizzazione cui è giunto il cinema di Altman ci permette di sostenere senza troppe remore che Estevez ha girato un film come Altman non ne gira più da un bel pezzo. Certo, a Estevez mancano del tutto la spietata ironia e lo sguardo feroce che il Maestro esibiva nella sua età aurea; ma BOBBY intraprende deliberatamente una strada diversa, in cui prevale – che piaccia o no – il piacere di raccontare piuttosto che l’urgenza di additare e di mettere alla berlina. Ecco il motivo per cui Altman si preoccupa di mantenere lo spettatore ben distante dai suoi personaggi, mentre Estevez lavora esattamente nel senso opposto: BOBBY vive del fascino inesplicabile che circonda un certo tipo di configurazione narrativa a focalizzazione interna, ovvero il grande evento storico visto dagli occhi della gente comune. Chiamatelo banalità, chiamatelo furbizia, fatto sta che l’identificazione spettatoriale (e dunque la possibilità stessa per il soggetto guardante di entrare nel film e renderlo vivo) in questi casi risulta sempre favorita quando non incoraggiata. Questo “invito ad avvicinarsi” che il film offre allo spettatore si risolve in una assonanza di emozioni, in una empatia a cui il pubblico in sala non può restare indifferente. È questo ciò che chiede BOBBY: Estevez ricerca con vigore e sincerità un comune sentire sulle cui note far vibrare all’unisono le emozioni degli spettatori. E ci riesce, perché – inutile dirlo – lo sgomento di fronte all’immane portata dell’evento storico, il brivido incontrollabile che percorre la schiena del testimone – di chi c’era – sono gli stessi che hanno attraversato le nostre coscienze ogniqualvolta ci siamo trovati davanti a un avvenimento più grande di noi, di fronte al fardello di un lutto troppo pesante per poterlo esprimere a parole. Ecco allora la bellissima sequenza finale del film, con il gesto istintivo di portarsi la mano alla bocca, l’incapacità di articolare parole, il vagare con lo sguardo perso nel vuoto, la rabbia per un sogno infranto. Perché il film di Estevez è anche questo, il piccolo racconto della morte di una grande narrazione, quella del sogno americano: in un momento storico – quello attuale – in cui è obiettivamente arduo pensare qualcosa di positivo del “sogno americano” (e a ragion veduta dubitiamo ormai della sua stessa esistenza), BOBBY prova a ricordarci che questo sogno una volta esisteva, ed era un sogno di libertà, uguaglianza e speranza.
 

Voto: 27/30

07:09:2006

63ma mostra del cinema di venezia

 

BOBBY (Work in progress)

di Emilio Estevez