Attorno alla misteriosa morte del divo televisivo di "Superman", si snoda il
plot di questo ‘softnoir’, ambientato in una Hollywood degli anni '50 che
prima ancora dell’epoca del silicone già puzza di gomma bruciata. Gli
scheletri nell’armadio che marciscono dietro le luci di Hollywood se non ne
minano le fondamenta iniziano però a gravare pesantemente sulla coscienza
dello Studio System. In questo senso il film di Coulter va ad inserirsi
sullo stesso filo conduttore che lega
Black Dalia di de Palma,
Global Empire di Lynch, ed è
più in generale riconducibile al disagio comune che accomuna la maggior
parte della produzione americana in questa edizione del Festival (When
the leeves broke di Lee, The
U.S. vs. John Lennon di Leaf e
Bobby di Estevez sono solo
gli esempi più eclatanti).
A dispetto dell’insabbiamento del caso, l’investigatore privato Louis Simo
(Adrien Brody), inizia le indagini attorno alla morte di George
Reeves/Superman (Ben Affleck). Una serie di insospettate connessioni portano
Lous a farsi sempre più coinvolgere dai torbidi meandri della vicenda fino a
chiamare in causa la sua stesa vita privata.
Il magro destino di Reeves, divo di serie B in declino, vittima ingenua
delle operazioni commerciali e dei capricci senza scrupoli della piramide
del potere degli Studios, si intreccia con la condizione esistenziale di
Louis, che paga il rifiuto di piegarsi al sistema con una vita di stenti,
ansia, emarginazione. Tanto simbiotica è la relazione, che lungo il percorso
delle indagini vediamo il protagonista sempre più grigio, sempre più
emaciato, ai limiti del border-line, sul filo del rasoio tra vita e morte di
fronte alla minaccia del fronte compatto del sistema che le sue indagini
stanno mettendo in discussione. Tanto discendente è questa parabola
esistenziale, che ci si aspetterebbe che dell’oggetto del suo caso
l’investigatore finisse per condividere il destino. In questo senso il
finale inaspettatamente conciliante risulta imprevisto e in un certo senso
aperto a diverse interpretazioni. Qual è il senso del rientro di Louis nei
canoni della regolarità familiare, a fronte dello sventato omicidio di
Reeves? Un invito ai nuovi adepti del sistema hollywoodiano a non provare a
ribellarsi all’omologazione imposta? Un’amara ironia che ride con una faccia
del pianto dell’altra? O banalmente una scelta stilistica del regista che
predilige chiudere con un good-end di facciata?
A dispetto del tema interessante e ampiamente battuto in questa edizione del
festival, e fatta salva l’interpretazione degli interpreti, Hollywoodland
non sembra porre i presupposti di un netto salto di qualità per il regista
di “Sex and the City”.
Voto: 25/30
05:09:2006 |