
Recita il press-book del film, parole dello stesso Kitano:
“IL METODO KUROSAWA – Normalmente K. faceva diversi ciak di un combattimento
di spada ben preparato. E questo, a mio parere, funziona benissimo. Ma ci
vuole molta capacità di resistenza per lavorare come K.
La sequenza della pioggia è il mio omaggio ai SETTE SAMURAI di K. Mentre
stavamo girando quella scena, non solo faceva molto freddo, ma l’ odore
della pioggia ad un certo punto è cambiato. Sembra che, non bastando l’acqua
del serbatoio, abbiano iniziato a pompare acqua da un laghetto di carpe.
Puzzava terribilmente e si aveva la sensazione che stessero piovendo carpe”.
Rispetto della tradizione e disincantato sguardo contemporaneo convivono
all’interno di uno schema mai rigido, che assume al suo interno forme e
stili diversi, rivisitati ogni volta seguendo i binari di un’ostinata
ricerca dell’equilibrio instabile in termini di costruzione dell’immagine e
del racconto.
Dopo l’impasse dell’azione, che caratterizzava i devitalizzati personaggi di
DOLLS, Kitano sperimenta ancora l’azione rianimata, ma in realtà non sposta
una virgola all’interno di un universo in cui mutano le facies, come le
maschere del teatro No, così caro alle caste dei samurai del passato, ma i
tipi incarnati sono sempre gli stessi. Ci si misura sulla base di una
destrezza (“No” vuol dire appunto abilità, efficienza), che è il braccio
armato di una altezza morale vista come scopo ultimo dell’esistenza terrena
e il cui mancato raggiungimento non può che portare alla rinuncia a questa
vita – l’harakiri, che anche un artista moderno quale Mishima mise in atto
solo qualche decennio fa – o alla implacabile ironia “contro” se stessi.
Piovono carpe, appunto.
La vicenda infinita dell’archetipico Zatoichi, il finto cieco errante, non
veste i panni delle storie di cappa e spada, ma attinge, come si diceva,
alla tradizione dei samurai. Laddove i Kyogen del No, inserti comici dovuti
e costituenti prassi comune alla regola di un’alternanza di registri
differenziati, servivano semplicemente a spezzare il ritmo cadenzato di
quelle rappresentazioni, la burla e lo sberleffo kitaniani, invece, hanno un
che di paradossalmente tragico, privo di speranza. Qualche kyogen, a dire il
vero, c’è anche in ZATOICHI (il matto del villaggio che strepita a
intervalli regolari brandendo in corsa una lancia o spada) , ma l’inciampo
finale del giustiziere “cieco” sulla banalissima pietra che s’interpone tra
lui e il coro del Trionfo, è l’acida rivelazione dell’inattingibilità –ai
nostri giorni– di quella gloria e di quella perfezione etica.
Kitano vive in altra epoca rispetto allo stesso Kurosawa, che già visitava
analoghi archetipi nel citato I SETTE SAMURAI, e ciò è palesato da questa
differenza non secondaria.
Sembra addirittura di leggere le cadute improvvise di Arturo Bandini nei
libri di John Fante, quando al termine di ogni divagazione fantastica arriva
immancabile il crollo, la constatazione della propria miserrima condizione
al cospetto di quei sogni.
Come il villaggio di coltivatori depredati cerca la protezione dei samurai
nel film di Kurosawa, anche qui assistiamo alla alleanza tra le orfane
geishe Osei e Okinu e il cieco vendicatore, che è un po’ il Kambei Shimada
della situazione. Ma a differenza di quello agisce in solitudine, poiché
all’acme della sfida con i Ginzo dovrà fare a meno del loro aiuto.
E se lì valeva la massima secondo cui “ chi pensa solo a se stesso, finisce
col distruggere se stesso”, qui il sipario cala su entrambi i contendenti
finali. In modi diversi, una qualche punizione cade sia sull’anziano capo
dei Ginzo, Kuchinawa -che aveva pensato solo all’estensione del proprio
potere nell’atto di uccidere i genitori delle geishe in una faida tra
famiglie - sia su Zatoichi, messosi invece dalla parte dei deboli.
Il destino, molto più cieco del protagonista del film, è un fato intriso di
modernità, baro e illeggibile al punto da tradire le leggi e i topoi della
narrazione.
è un puro pretesto che ci si trovi nel Giappone del XIX° secolo: quello è il
periodo in cui sono ambientate le altre vicende della saga di Z., portata
sullo schermo a più riprese dal 1962 al 1989, ma il regista va oltre i
limiti temporali, pur sfruttando l’occasione per girare per la prima volta
un film in costume. Da un punto di vista formale, Kitano attinge ad un ormai
perfetto controllo degli strumenti a sua disposizione. L’inquadratura è
sempre intesa a mo’ di scena teatrale, in particolar modo nelle dominanti
scene d’interno, dove i pavimenti in legno levigato replicano fedelmente il
palcoscenico del “No” e le tende d’entrata e uscita degli attori ritornano
nell’arredo delle case. Stesso controllo anche nelle scene d’azione, con una
m.d.p. che non segue mai le evoluzioni della spada e i movimenti dei corpi.
La meravigliosa semplicità dell’architettura degli spazi domestici, poi,
aiuta a definire la scansione dei piani visivi, con il moltiplicarsi di
schermi e diaframmi posti a definizione degli ambienti.
I toni tra il grigio e il blu di quel legno ritornano nel livido colore del
villaggio notturno, teatro delle prime danze di morte e dei duelli finali,
quando una serie di agnizioni consecutive mette Zatoichi di fronte a tre, e
non una sola rivelazione del Male.
Due soli ralenti, piccoli movimenti semicircolari della macchina da presa
all’inizio delle scene d’interni, uso monastico di carrelli e zoom: K. si
concede poco altro solo nel tip-tap conclusivo, happy-end fortemente voluto
per dar forma alla “versione moderna “ e dissacratoria “delle tipiche danze
celebrative in un dramma in costume”.
Beat Takeshi, che si riserva il ruolo di eroe platinato (altra
visualizzazione del cross-over tra antico e moderno), rilegge in chiave
ironica i finali in cui “l’eroe lascia la città e s’incammina sulla strada
che costeggia i campi di riso, mentre tutti i contadini iniziano
improvvisamente a cantare e a ballare in mezzo ai campi”.
Voto: 30/30
02.09.2003
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È
opinione unanime, alla fine della proiezione stampa di Zatoichi, che
Kitano Takeshi abbia volutamente giocato a girare un film libero e
leggero, senza il retrogusto amaro della maggior parte dei suoi film, un
"what you see is what you get" che fa dell'immediatezza la sua arma
vincente. Da un capolavoro come
Dolls, il regista giapponese sembra uscire fuori illeso: i grandi
film, è cosa nota, hanno spesso conseguenze tragiche, quando non letali -
cadute infami, carriere in fumo, o (conseguenza non meno infausta) declini
lenti nell'ombra dell'oblio.
Kitano sembra prenderla a risate, affrontando con apparente spensieratezza
(che ricorda, per certi aspetti, quella di
Getting Any) un
divertissement d'eccezione, una sfida che vede rivale niente meno che
l'augusta tradizione del jidai: la storia di Ichi (per la cronaca,
lo stesso, in formato cyberpunk, di
Ichi the killer di Miike
Takashi). Gli applausi a scena aperta, che partono sul logo dell'Office
Kitano nei titoli di testa e terminano con i credits musicali di quelli di
coda, testimoniano l'affetto del pubblico veneziano (in primis) e
italiano.
Il massaggiatore biondo e cieco, dedito all'alcol e al gioco, guerriero e
saggio, attraversa con una coerenza ammirevole un impianto brioso da
musical, che termina (è cosa ormai nota) con un insolito tip-tap.
Sincretismo nipponico, che fonde le influenze e le suggestioni estranee
per farne materia nuova, e stile d'autore- Beat Takeshi (tornato al nome
di battaglia) conosce il suo pubblico e se stesso, stupisce, diverte.
E merita un premio importante come quello per la regia, a restituzione
dello sgarbo dello scorso anno: quel Leone mancato che ha lasciato
languire da solo, per un anno ancora, l'altro, meraviglioso, dei "fiori di
fuoco" di Hana Bi.
Voto:
29/30
02.09.2003
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