|
|||
![]() |
|||
Il protagonista di questo bel documentario
è Bouda, ci compare davanti come un’apparizione metropolitana nella
luce bluastra di un ponte pedonale con una parlantina da rapper e uno sguardo
accigliato che fuoriescono letteralmente dallo schermo, raccontandoci una
storia, non solo sua, ma collettiva, che si costruirà a tasselli,
completata e rifinita dagli amici, da vicini di casa, parenti e conoscenti. Bouda è allo stesso tempo un eroe ed un emarginato, un divo e un reietto, una contraddizione vivente. La sua storia inizia il 25 agosto del ‘73 nel porto di Marsiglia, dove sbarca a soli tre mesi insieme alla famiglia, provenienza Tunisia, destinazione speranza, nella fattispecie estrema periferia parigina, e più precisamente ancora Dugny, quartiere dormitorio per immigrati e culla di ogni forma possibile di micro e macro criminalità giovanile. Alla quale non è semplice sottrarsi, anche se i genitori lavorano e non manca nulla, se non qualcosa da fare, oltre a produrre, consumare e crepare secondo un vecchio ritornello. Questo qualcosa da fare, che non sia rubare e spacciare, si materializza come per miracolo nello sbarco a Parigi, all’inizio degli anni ’80, di una moda (chiamiamola così) nata fra gli emarginati e destinata agli emarginati, quella della cultura hip-hop. Il mezzo di diffusione è l’unico possibile, quello che chiunque ha anche a costo di investirci il magro stipendio, ovvero la TV, che nell’81 passò un programma, “H.I.P. H.O.P”., dal nome tanto impronunciabile quanto inequivocabile, con il quale il linguaggio apparentemente innocuo degli slums USA venne risucchiato voracemente dai nordafricani parigini, trasformandosi immediatamente in una bandiera, non solo di svago e distrazione dalla propria grigia realtà, ma di protesta, spesso furibonda, contro quello che qualche anno prima da qualcun altro veniva chiamato “il sistema”. Bouda, che quell’anno compie otto anni ed è il più scalmanato dei marmocchi, diventa immediatamente la mascotte del gruppo di incalliti hip hoppers del quartiere, il cui scopo ultimo è riuscire ad esibirsi nella trasmissione televisiva, che permette democraticamente a chiunque di mostrare il proprio talento in sane competizioni individuali di danza acrobatica. Data l’inaudita predisposizione, Bouda diviene presto il re indiscusso dello scenario hip hop della periferia parigina, è rispettato, acclamato e comparirà spesso in tv a fare da star per i suoi coetanei meno dotati. Questo non gli impedirà tuttavia di finire poi, come questi ultimi, in giri di malavita e droghe varie, il cui capolinea sarà il penitenziario, da cui, dopo il secondo arresto (sempre reati minori), per la cosiddetta legge della “doppia pena”, scatta l’espulsione dalla Francia. Bouda si ritrova, dunque, a quasi trent’anni, in Tunisia, un paese di cui ha sempre e solo sentito parlare (e neanche tanto bene) dai genitori, di cui non conosce la lingua, in cui non ha parenti né legami alcuni. Tornato in Francia fortuitamente (salvato in parte anche da questo film), si trova ora ad affrontare una nuova esistenza con il marchio della “doppia pena” stampato in fronte, il che pregiudica gravemente le sue possibilità di crearsi una vita normale, di avere un lavoro, una famiglia. Il film, estremamente ben fatto anche dal punto di vista formale (con inserti di coreografie hip hop letteralmente splendidi), punta efficacemente il dito contro le politiche governative sull’immigrazione, che hanno creato, come sottolinea il regista nel dibattito post-proiezione, una generazione di giovani figli di immigrati che, pur cresciuti in Francia, non hanno un’identità politica, non sono interessati ad averla e, alla fine, non vanno neanche a votare per eleggere qualcuno in un paese pronto a sbatterli fuori al primo (anzi secondo) sgarro. Voto: 28/30 05.09.2003
|
|||
|