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Non
è un caso che Roland Barthes abbia scritto il suo "Frammenti di un discorso
amoroso" – mi si perdoni d’ora in poi la ripetizione a frammenti. Il
frammento – non sono io a dirlo ma i vari Cioran, Sgalambro… lo stesso
Barthes! - segna il punto apocalittico della scrittura, ovvero
l’autobiografismo – e non l’autobiografia! – del testo che per la prima
volta si racconta, si descrive attraverso fuggevoli illuminazioni.
Figuriamoci quando poi si deve parlare d’amore, materia di per sé stessa
evasiva, eterea, ellittica… imprendibile perché impensabile. Al cinema si
parla d’amore nel migliore dei casi a frammenti… proprio attraverso il
montaggio (forma) che influenza il suo contenuto. Con
Raja, Doillon (cineasta a noi
inedito… qualcuno ricorderà nel 1996 alla Mostra del Cinema di Venezia il
suo bellissimo Ponette) sfida
la percezione e le sicurezze dello spettatore. Un ricco francese Fred,
padrone di una grande villa ha deciso di giocare al seduttore disincantato e
disincarnato senza soffrire. Si appassiona alla giovane marocchina Raja,
orfana e con un passato di prostituzione. Lei lavora per lui. Lui ha la
certezza da occidentale senza scrupoli di conquistarla. Lei si nega. Lui si
sente preso in giro. Sono due corpi che girano a vuoto che vorrebbero ma non
possono e che potrebbero ma non vogliono… qualcosa li ferma… qualcosa
chiamata incomunicabilità (i problemi linguistici sono solo la superficie) o
invalidità dei sentimenti. Lui s’innamora perdutamente, è alla disperata
ricerca di quell’amplesso (abbraccio?) che forse arriverà troppo tardi e non
sincronizzato con i tempi di lei. Anche lei si sente invasa da una passione
nuova, ma al contempo si sente umiliata, comprata dalla ricchezza materiale
di lui. Doillon riprende i corpi con violenza: primissimi piani che vogliono
strappare un sorriso, un pianto, uno sguardo… testimoni di un’autenticità
più mitizzata che vissuta; il mito del buon selvaggio, il ludico disincanto
del colonialista ricco ma freddo, il Marocco, l’esotismo, le schermaglie
d’amore vengono cancellate e distrutte in nome dell’incomunicabilità… amare
– sembra urlarci Doillon ai nostri orecchi sordi! – significa il più delle
volte soffrire… perdere… inesorabilmente perdere… per niente. Voto: 28/30 27.08.2003
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