60. mostra internazionale di arte cinematografica

 

Raja

di Jacques Doillon

con: Pascal Greggory, Najat Bessalem

In Concorso

di Domenico MONETTI

 

Non è un caso che Roland Barthes abbia scritto il suo "Frammenti di un discorso amoroso" – mi si perdoni d’ora in poi la ripetizione a frammenti. Il frammento – non sono io a dirlo ma i vari Cioran, Sgalambro… lo stesso Barthes! - segna il punto apocalittico della scrittura, ovvero l’autobiografismo – e non l’autobiografia! – del testo che per la prima volta si racconta, si descrive attraverso fuggevoli illuminazioni. Figuriamoci quando poi si deve parlare d’amore, materia di per sé stessa evasiva, eterea, ellittica… imprendibile perché impensabile. Al cinema si parla d’amore nel migliore dei casi a frammenti… proprio attraverso il montaggio (forma) che influenza il suo contenuto. Con Raja, Doillon (cineasta a noi inedito… qualcuno ricorderà nel 1996 alla Mostra del Cinema di Venezia il suo bellissimo Ponette) sfida la percezione e le sicurezze dello spettatore. Un ricco francese Fred, padrone di una grande villa ha deciso di giocare al seduttore disincantato e disincarnato senza soffrire. Si appassiona alla giovane marocchina Raja, orfana e con un passato di prostituzione. Lei lavora per lui. Lui ha la certezza da occidentale senza scrupoli di conquistarla. Lei si nega. Lui si sente preso in giro. Sono due corpi che girano a vuoto che vorrebbero ma non possono e che potrebbero ma non vogliono… qualcosa li ferma… qualcosa chiamata incomunicabilità (i problemi linguistici sono solo la superficie) o invalidità dei sentimenti. Lui s’innamora perdutamente, è alla disperata ricerca di quell’amplesso (abbraccio?) che forse arriverà troppo tardi e non sincronizzato con i tempi di lei. Anche lei si sente invasa da una passione nuova, ma al contempo si sente umiliata, comprata dalla ricchezza materiale di lui. Doillon riprende i corpi con violenza: primissimi piani che vogliono strappare un sorriso, un pianto, uno sguardo… testimoni di un’autenticità più mitizzata che vissuta; il mito del buon selvaggio, il ludico disincanto del colonialista ricco ma freddo, il Marocco, l’esotismo, le schermaglie d’amore vengono cancellate e distrutte in nome dell’incomunicabilità… amare – sembra urlarci Doillon ai nostri orecchi sordi! – significa il più delle volte soffrire… perdere… inesorabilmente perdere… per niente.
 

Voto: 28/30

27.08.2003

 

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