60. mostra internazionale di arte cinematografica

 

o prisoneiro da grade de fero

di Paulo Sacramento
con Mariano Marin, Romina Paula

Nuovi Territori

di Floriano GUIZZARDI
Il giovanissimo autore di questo notevolissimo documentario brasiliano ha compiuto un’impresa quasi eroica, quella di ritrarre la vita quotidiana in una delle più grandi e degradate prigioni del mondo, la Casa di detenzione di Carandiru, a San Paolo. Il lavoro è stato in parte eseguito dai detenuti stessi, istruiti opportunamente da un piccolo corso di video tenuto all’interno del carcere, durante il quale, oltre all’uso della videocamera, hanno potuto vedere molti documentari a sfondo sociale, che permettessero loro di riconoscersi, di trovarvi qualche assonanza. Non si tratta dunque di un’intervista, né di un documentario vero e proprio, ma di un’opera ibrida, nata in modo quasi spontaneo, diaristico a tratti, ricco di riflessioni, proteste, sogni, rabbia. I detenuti parlano liberamente al mondo, alle proprie famiglie, a sè stessi, cercando di capire come sono arrivati a questo punto, cosa c’è di sbagliato là fuori, dilaniati dalla nostalgia della libertà e dal rimpianto. Tutti possono dire la loro, anche chi sopravvive da mesi in cella d’isolamento, isolamento si fa per dire, quando in quattro metri quadri sono stipati quindici uomini, che fanno i turni per dormire, accatastati come sardine, senza lavarsi né uscire se non una misera ora il sabato.
Il regista ed il produttore, in sala per il consueto dibattito, ci hanno fortunatamente informato che l’orrida Casa di detenzione è stata ora demolita ed al suo posto sono sorti otto bei nuovi carceri nuovi di zecca, debitamente inaugurati, come si vede nel film, con taglio del nastro, sindaco e ministri, che, a loro detta, sarebbero stati ben più felici di inaugurare asili, ospedali e campi giochi, ma ahimè, il carcere è pur sempre necessario, anzi, assolutamente indispensabile, dato che qualunque politica contraria agli attuali metodi carcerari risulterebbe perdente in sede elettorale. Quindi siamo ben lontani anche dal solo pensare a metodi di reinserimento e rieducazione dei carcerati.
Formalmente, il film è di una bellezza commovente, che denota come, pur nella più completa libertà creativa, non sia stata lasciata al caso la fotografia, in molti passaggi davvero splendida. Dichiara il regista: “La lavorazione ha richiesto 3 anni, uno per girare, due per montare il materiale (ma il progetto era in ballo da circa quattro anni). E’ stato un film sorpresa, neanche noi sapevamo come sarebbe andata a finire, ogni giorno è stato diverso dal precedente. Sapevamo solo ciò a cui stavamo andando incontro. La difficoltà era sapere come poi avremmo utilizzato il materiale, come organizzarlo per rappresentare in modo veritiero la vita all’interno della prigione. Il 50% dei detenuti che hanno lavorato nel film ora sono liberi, hanno potuto vedere il film e riconoscersi, verificare che quella descritta era proprio la loro realtà, una realtà che si trova a meno di dieci minuti da casa mia e solo pochi conoscono”. Ammirevole è stato anche, a detta di Sacramento, l’entusiasmo con cui i detenuti hanno lavorato al film, la partecipazione collettiva e la tranquillità con cui è stato possibile girare all’interno del carcere (senza scorta peraltro), grazie al tacito consenso, oltre che delle autorità, anche dei veri padroni del territorio, ovvero i carcerati stessi.



Voto: 28/30

05.09.2003

 

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