
E' possibile un mondo senza donne e, se esistesse, come sarebbe? Quali i
valori, le usanze, i comportamenti? Nell'universo di matrice indiana del
regista Manish Jhâ, meglio soprannominato come Janambhumi (luogo di
nascita), la risposta sembra scontatamente ovvia: è un no placido e
preciso, basato sull'analisi di problematiche reali, senza strizzatine
d'occhio, e sfacciatamente concreto nel proporre una visione lucida
dell'universo indiano.
L'India che ritrae Manish Jhâ con taglio occidentale nelle riprese ha un
nome di donna: Kalki. Kalki è la giovane e bellissima protagonista di un
film comprensibile e dialettico nel suo occhio “maschile” che dall'interno
di una società misogina tratta come un oggetto senza vita l'unica donna
presente. Imponendole un regime di schiavitù il padre di Kalki la vende
per centinaia di migliaia di rupie più cinaque vacche: un prezzo alto per
l'unica donna del viallaggio che ormai è divenuta una rarità. In questo
luogo immaginario della nascita, molto simile all'India vera dei nostri
giorni, le neonate vengono uccise seguendo un'antica tradizione che trova
funesto procreare bambine. Kalki quindi va ad abitare coi cinque uomini
che l'hanno comprata dal padre, un ruffiano che alla lettera supplichevole
di Kalki risponde con l'indifferenza di un uomo a cui interessano solo i
soldi che può fruttare uno stupro: quello dei cinque uomini che con il
matrimonio di uno hanno implicitamente incluso i favori sessuali di tutti.
L'unico ponte con l'amore lo conservava uno dei fratelli dello sposo che,
con la tenerezza e dolcezza di un uomo innamorato, aveva instaurato con
lei un rapporto umano e paritario, aiutandola nei lavori faticosi e
convincendola a studiare. Quest'uomo, il più giovane dei 4 fratelli ( il
quinto uomo che abusa di lei è il padre), viene ucciso dagli altri, gelosi
del suo rapporto privilegiato con Kalki. Raghu, il giovanissimo tuttofare
della casa muore poco dopo proprio per averla aiutata a fuggire, ammazzato
dai fratelli in modo sanguinoso. A questo punto le cose peggiorano per
Kalki che viene incatenata nella stalla e di cui abusano a turno anche gli
uomini del villaggio, avendo trovato un'apertura nella finestra con le
sbarre della stalla.
Le sbarre come correlativo oggettivo della condizione della donna in
India, od in un luogo qualunque in cui i diritti minimi non siano
garantiti, è il filo conduttore di un film sostanzialmente impegnato e
profondamente corretto nella trasposizione e nel rispetto della
personalità femmnile.
Kalki delinea una donna la cui colpa non esiste, se non come apologia di
reato: diventata impura a causa degli stupri collettivi da parte degli
abitanti del villaggio viene oltremodo oltraggiata con innumerevoli
sevizie ficnhè, chiamata a partorire e rimossa dalla stalla dà alla luce
una bambina. La misura della bambina e quella donna coincidono: la
feminilità con la grazia, con la non-violenza, con la fuga e
l'introversionbe di fronte alle provocazioni maschili, la voce di un
sussurro opposta alla prepotenza di un attto volontariamente aggressivo.
Il respiro di questo film è lei, il suo occhio interno che guarda le
sbarre dietro le quali è rinchiusa non le impediscono di vedere, mentre
gli altri guardano, ciechi, la loro disfatta. Il poaradigma della vita,
femmineo e concreto, pacificamente sicuro e rassicurante, longevo e
semprevivo in un grembo che macina realtà fuggevoli e indefinite ma dal
passo fermo. L'a'more di un regista che mostrando la violenza è riuscito a
non essere violento con lo spettatore: la telecamera riprende il
necessario, il giusto, i frame si contano sulle dita seguendo il movimento
cadenzato dei suoi passi. Nessun delirio, nessuna impressione: un lungo
piano-sequenza che a volte avvolge e scalda colui che guarda sernza farlo
sentire un'estraneo. Un film il cui ritmo sincronico non disturba e lieve
conduce al suo primo ed ultimo vagito di segreta coincidenza.
Voto:
30/30
30.08.2003
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