60. mostra internazionale di arte cinematografica

 

Lost in translation (L’amore tradotto)
di Sofia Coppola

con: Bill Murray, Scarlett Johansson

Controcorrente

In Concorso

di Gabriele Francioni

 

Quella stessa inerzia (apparentemente) calcolata della messa in scena di eventi che denunciano programmaticamente la loro inevitabilità, rintracciata nel precedente THE VIRGIN SUICIDES, ritorna miracolosamente in questa prova di dislessica delicatezza. Un piccolo oggetto levigato dal caso, che contiene a mo' di perla il diario intimo, ma non affidato alla traduzione in parola, di una contiguità amorosa, ma non esplicita, tra una moglie ventenne e un attore di mezza età in crisi d'identità, entrambi naufragati in un'isola -il Giappone- che li trattiene e li mette a confronto sul tema:amerò ancora? o: è necessaria l'affabulazione nella comunicazione amorosa?
Lampo delicato senza un plot di riferimento, il film enuclea poche cose rendendocele immediatamente chiare nella loro impossibilità di essere dette (ma, semmai, messe in forma di canzone).
Corpi traslati con indolenza verso una meta segnata dal garbo ostile dei luoghi e delle culture sconosciute, Bob/Bill Murray e Charlotte/Scarlett Johansson si lasciano trascinare dalla lingua dei giapponesi piuttosto che dalla linea guida degli avvenimenti (quali?) e si offrono all'inevitabile incontro in un ascensore d'hotel.
Al seguito del marito fotografo, l'una, e impegnato in remuneratissimi spot demenziali - la tv nippo... - l'altro. Cordialmente abbandonati da coniugi distratti da una ristrutturazione domestica o da superflue attrici teenager, i due corpi progressivamente si attraggono. Ma non agiscono attraverso volontà e intenzioni: piuttosto, lasciano che fili invisibili li portino ora in piscina, ora in un ristorante in città, ora nella sala del karaoke, a incontrarsi sempre. Ma mai ad agire l'amore e il sesso.
è proprio il karaoke a rendere chiaro, per così dire, il senso della narrazione.
Una stanza dove il tempo -e i tempi evocati dalle canzoni- ma anche i nessi interni a quei testi vengono gioiosamente abbandonati, dimenticati, pur continuando a galleggiare nel quasi vuoto spaziale appena riempito da persone che parlano lingue diverse e diversamente amano. Lasciano, invece, spazio alla comunicazione non verbale.
Mai come in questo caso, un'infinita serie di musiche extradiegetiche riescono ad aderire all'indefinitezza netta del "racconto", accordandosi alla sospensione e disarticolazione degli eventi.
Se durante le interviste, le riprese degli spot televisivi o alla reception di un ospedale, quasi tutto il senso si perde nella traduzione, perché c'è un eccesso di depauperante esplicitazione (tradurre è sempre un po' come tradire), l'ora del karaoke assiste ad un'epifania inattesa. Il suono, che prolunga in sala il ronzio del fax notturno o la sveglia automatica, accorda gli strumenti di anime perse/raccolte: Bob, la cantante matura con cui finisce a letto, Charlotte. Il senso è finalmente dissolto, una canzone va in transizione sull'altra, elevando ticchettii, frastuoni, trilli e rumori indistinti al livello della parola che non è capita, ma che essendo solo fonè, è multiversa, poetica, accettabile.
Le immagini transitano sullo schermo quasi senza uso della macchina da presa e continue dissolvenze pongono fine ai già esigui tagli di montaggio delle scene.
Si pensa più che altro a contenere i due protagonisti quasi sempre all'interno della medesima inquadratura, che, peraltro, talvolta accoglie democraticamente figure in transito momentaneo, come una buffa ballata giapponese che attraversa lo spazio sonoro e svanisce.
Sofia Coppola, che viaggia anche attraverso i gusti e i tempi musicali, riesce a dirigere le canzoni quasi fossero attori, e le mesce in un fantasioso cocktail desafinado: l'urlo di Peaches, i Phoenix amici del fratello Roman, Death in Vegas, My Bloody Valentine tutti insieme sono puro sincretismo, ma anche i fedeli Air dal perfetto nome e, non presenti nella colonna sonora perché solo evocati dal karaoke, Nick Lowe, Simon & Garfunkel e Roxy Music, che il tono baritonale di Bill Murray trasforma in un brano virtuale dei Joy Division.

Voto: 30/30

31.08.2003

::: Sito ufficiale della mostra :::