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Basta. Lo dissi nei lontani anni ’80 nell’esubero di pellicole statunitensi
una più identica all’altra nello sforzo d’emulare
Rambo, il Vietnam del John
Wayne dei Berretti verdi. Lo
dico adesso con i mille stereotipi di un cinema iraniano che, a differenza
degli effetti speciali bellici degli statunitensi, usa quelli della povertà
a tutti costi, dei palloncini bianchi, del neo-neo-neorealismo, delle barbe
incolte. Non bastava Samira (che tra l’altro è protagonista di questo film)
ma ci voleva la sorella 15enne Hana Makhmalbaf a mettersi dietro la macchina
da presa e raccontarci l’impossibilità di realizzare un film di finzione a
Kabul, Afghanistan. Dopo la caduta del regime talebano, Samira Makhmalbaf,
figlia del famosissimo cineasta Moshen Makhmalbaf cerca attori e attrici per
un film su una ragazza afghana decisa a candidarsi alla presidenza del suo
paese. Cinema nel cinema, film nel film (sai che scoperta!) dove troviamo
Samira Makhmalbaf che, come una novella presentatrice televisiva, urla alle
poverette che dovrebbero recitare nel film ma rifiutano perché hanno di
meglio da fare, cioè allevare una famiglia. Le chiude in un furgone e si
stupisce che queste, vessate da un marito – magari non talebano, ma
violento! – e dall’impegno quotidiano dei figli si rifiutino di recitare per
due mesi dall’alba al tramonto.
Samira urla e sorride come una Alba D’Eusanio ante litteram, le ricatta coi
soldi, dice loro che diventeranno famose, perché tanto lei è la figlia di…
mah!. Di estetica cinematografica è inutile parlare perché non esiste…
meglio guardarsi una fiction nostrana, almeno si vede meglio rispetto al
digitale iraniano fintamente povero&sporco. All’uscita della sala viene
naturale fare una proporzione: il regime talebano ha danneggiato l’Iran,
quanto la famiglia Makhmalbaf ha fatto col cinema. Voto: 01/30 27.08.2003
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